Il piatto della doccia ha un rigurgito di bile
io sto finendo un altro dei libri senza senso;
seguo le pagine al buio
crespe
fonde.
I viaggi di qualcuno che non ha fatto un passo,
che ha stinto letti interi
senza mai uscire fuori.
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Quindici rughe, un giorno
ho contato alla sua faccia.
E gli ho telefonato per dirgli ch’ero amico,
all’ora che si mettono a tavola, ma è uguale
i figli mai sapranno come ci intendevamo.
Un giorno gli offrirò il mio Cordiale,
io non bevo.
Gli occuperò le mani scaldandole col fiato.
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Qui si spalanca tutto
come se fosse niente;
i rumori fanno banchi lunghissimi al mercato
il cielo, piano piano
è un cucchiaio di vaniglia.
Qualche frammento ancora mi scappa sotto il treno
immagini
ritagli,
un risata scema.
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Mia madre con i piedi al catino
il beccafico
le vasche secche d’acqua piovana.
Tutti bianchi
sono i vecchietti nelle camicie;
stanno ai fossi
piegati come nudi cipressi di novembre.
Vanno cercando in specchi d’inganno
la cicoria, o forse solo il volto
tenuto in naftalina,
il dente d’oro, e viene l’allodola
poi mena.
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Scricchiola il grano raccolto, come gli ossi
come la lingua nera di capra, il diavolaccio
la cerimonia delle parole ai lavatoi.
Verdemaria, che grida puttana!
E poi si pente
perché lontana dalla sua casa
sta la figlia, aperta
come fanno le rose nelle offerte
nei libri che raccontano il ghiotto delle notti
la perdizione in baci d’incenso
il petto nudo, che allatta e tiene fuori la morte
dal suo uomo.