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Archive for ottobre 2012

GLI ANNI DEL RITORNO

Negli anni del ritorno
io non dicevo niente.
Guardavo l’uomo arrendersi al piatto
al male in cuore;
minestra riscaldata per cena, mezzo litro
due mocci già fumati di sigaretta in tazza.

Negli anni del ritorno le strade erano strette
e l’ultimo lampione bruciato
ombra in poppa.
Orari d’impossibile impegno a stare svegli
soltanto per trovare il rumore delle scarpe
sopra le scale quando più niente fa rumore
e in giro resta solo il furgone del carbone
un chierichetto pazzo d’incenso
un prete vecchio, che benedice il fatto
che vivano le case.

Negli anni del ritorno la luna era di vetro,
spaccava negli estremi se non ci stavi attento,
e l’aria si appoggiava sull’erba col pensiero
così che la mattina sembrava nevicato
col quel silenzio strano e migliore che oggi manca.
Con quel silenzio tutto lavato di sospiri
di inguini toccati ed accesi.
Ed ogni amore,
tornava alla crisalide, al giorno del creato
al primo tempo dentro in un Cine
al primo uccello
veduto sopra il legno dell’asse da lavare.

Negli anni del ritorno chiamavo Anna piano;
lei sulla porta usciva
con qualche cosa in mano
a volte un tozzo bianco di pane
altre un presagio
uno sciame di bellezza futura
un chicco d’uva.
Negli anni del ritorno la salutai per prima,
e poi le piante gonfie da frutto,
gli orti
i cani
la rete che chiudeva il campetto all’oratorio.
La salutai per prima
ed ancora ho mano alzata,
ora ch’è grande e mostra i suoi seni
ora ch’è sposa, e madre di ventura
e sorella di qualcuno.
Ancora la saluto
come si fa alla vita,
a questa malinconica voglia di scappare
per solamente dire
– ritorno
e sono gli anni.

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QUESTIONI FISIOLOGICHE

Io lo so.
A ottantacinque anni suonati
sarò ancora
là sulla porta a ridere dentro.
Per te, nuda
il giorno che volevi sposarmi
e avere un figlio.
Il giorno che volevi contare
alle tue amiche
di avere fatto perle di sangue tra le gambe
prendendoti un ragazzo nel letto.

Sarò là,
a governarmi tutto il vespaio
della vita.
A togliermi dagli occhi la goccia che pulisce.
Questioni fisiologiche, certo
che cos’altro?

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PRIME LUCI

Come calati cappelli sulla testa
i primi netturbini già pesano alla terra;
il bar dei combattenti dispensa l’oratoria
confusa, e un po’ blasfema
dell’alcol da due soldi.
E in questa mia miseria paesana
piango il tarlo
la ninna nanna d’una poesia che, rotte l’acque
mostra la testa al buio del mondo.

Mia sorpresa, mia ultima compagna di vita:
a te perdono
quella bellezza dura e compatta
dei vent’anni;
la tela del vestito che apristi un pomeriggio.
Tu perdona
in me la troppo fragile rima maneggiata
il cuore di cristallo che mi scordai, talvolta.
Il sonno d’innocente che veste le mie notti
mentre dovrei covare le urla del peccato
la rabbia di quei senza riserva a cui non dono
che l’illusione ultima
che al mondo ci sia amore.

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RUMORI DI SCENA

Talvolta,
può succedere che mentano i rumori.
Che questo transatlantico trascini via gli ormeggi,
che l’àncora si stacchi dal fondo
e crolli un muro
scavando solchi fino al midollo della terra.
Succede che sia solo l’idea di te a venire
e che si porti dentro la densità dell’acqua
l’immagine riflessa di un volto che ha più sonno
di un bimbo macellato dai giochi
o dalla febbre.
Succede che il motore sia un Diesel,
giù in cantina,
e il rombo che tu ascolti sia solo un passeggero
che si è gettato per la follia di un morto amore
per la fallimentare sua impresa
o per provare
a fare il pesce luna in giornate nuvolose.
Succede che ingranaggi e pistoni siano uno,
che il cigolio del letto nasconda qualche amante
che ha avuto lo sfacciato coraggio di incontrarti
me nonostante a fianco,
ma la passione è cieca.
Succede che ti chieda cos’è che ti fa sveglia
se il torpedone delle sei e trenta sia passato;
se ti ricordi ancora com’è
fare i felici.

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BACI

Ci furono dei baci curiosi,
plissettati,
dati di sbieco
quasi puliti, delicati.
Ci furono altri baci
all’altezza delle tempie,
sul faro sempre acceso del viso
intorno al naso.
Dei baci sulle nocche
quando tornavi a casa
dal calzificio dopo aver fatto nove ore.
Ci furono dei baci arricchiti al primo amore
al gusto di cannella e gelato da passeggio.
E dopo altri,
al ventre di un cinema, potenti:
la bocca tutta presa a sassate
con i denti.
Ci furono dei baci ammiccanti
altri di Giuda,
qualcuno dato in mezzo alla gente
meno audaci.
Ci furono dei baci un po’ freddi
sciacquettati
che credevamo ultimi
senza la lingua e il resto.
Ci furono dei baci e non eravamo pronti
altri non dati e ora mi pento
baci adulti
privati
clandestini, poltiglia di due storie;
dei baci come acciughe
a scurire l’acqua in mare
ed alti che vorrei riprovare
tutti quanti.

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TU RIDI, CHE TI SPETTINA IL TEMPO

L’ecologia del seno
che, piccolo, ora vola
si fa colomba sui lucernai
s’adagia indenne
sul prato del vestito venuto a buon mercato.
Così l’icona passa
e saluta l’età meglio,
il broncio sano dei primi amori
le spaccate
su per le cosce in rotti bottoni.
Ridi, bella
che affiori dalla fonda come le foglie d’acqua
come le calle ai banchi dei sudamericani.
Tu ridi, che ti spettina il tempo
brucia case
fa perdere monete e pensieri
annotta presto.
Ridi e poi corri sui muri, come i gechi,
come le catenelle di luce
qui, a settembre.
Come quegli orifizi che l’erba fa ai gradini
la forza della grazia che spezza lo stantio
i candelabri polvere e chiesa
le pignatte
con pertiche bendate dal dio della fortuna.
Tu ridi, che fai figli di bronzo
e porcellana
tu ridi, da quel ventre bagnato
dal tuo culo
dai fianchi che all’ellisse han rubato la postura.
Ridi dal labbro più alto,
e poi dall’altro,
ridi da sotto le ascelle e dalla nuca
dai piedi che fai fuori dal letto
come carpe
venute a risucchiare dell’aria
e a salutare.

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DOPO ME

Ti metto due parole spugnate
gonfie d’uva
primipare d’autunno
con sandali d’estate.
Le poggio come certe canzoni nell’orecchio
entrate la mattina ed uscite tardi, a sera.
Le svolgo come carta dorata su un regalo
fino a centrarne spigoli e corpo
ché le veda, tu mentre fai distinguere
agli occhi il nodo smosso.
Ti accendo due parole recapitate a bocca
girate come certi dolcetti nelle feste;
toccate nel midollo e la scorza
ben spremute
quasi un’essenza d’olio sui gomiti e i calcagni.
Dopo lavata in acqua di uomo
dopo un tango
uno stecco di vaniglia tra i denti.
Dopo me.

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DAL BLOG DI POETELLA

raccolgo l’invito di Poetella, stimatissima anima sensibile
ma non diffondo, dovrei davvero includere ognuno di voi.

1) Quale è il capo d’abbigliamento che ti fa sentir meglio: una camicia chiara

2) Quando è che ti senti più energico: Mattino,mezzogiorno o sera: mattino prestissimo

3) Quale è il tuo cibo e bevanda preferiti: le acciughe salate, acqua naturale

4) Quale tipo di cioccolato preferisci: quello con le nocciole, o col peperoncino

5) Quale è il tuo hobby preferito: scrivere, ascoltare e collezionare musica

6) La tua musica preferita : è un viaggio che può partire dalle arie di Puccini, per soffermarsi sulle strabilianti architetture di Bach, proseguire con il rock, la poesia dei cantautori e la creativa improvvisazione del jazz. Questa mattina in auto però avevo i Van Der Graaf Generator, ho un debole particolare per il progressive

7) Se potessi fare le valigie e lasciare in questo momento, quale paese o città vorresti andare?in California.
8) Hai delle cattive abitudini? Qualcuna, si

9) Cosa non sopporti degli altri? La prepotenza e la presunzione

10) Cosa non sopporti di te stesso? I denti e i peli che crescono nel naso
Solo per citarne 2 🙂

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LA MOLDAVA

Come succhiare radici e aver sei anni
la legna alla fornace del giorno
un moto a luogo.
Qui mi appresta la tenerezza scorta
in quelle pieghe prime di madre affaccendata
nel capo riposato a impalarne le ginocchia
nella docilità delle mani a nuca accesa.
Qui la pietà è la povera arte di una strada,
di un melograno oltre il cancello
delle scuole, due piccoli pennelli di mina
giunchi in acqua
la prepositurale movenza dei mulini.
Qui studentesse azzuffano l’erba
i cani al passo
l’azzurro che si sciacqua come dopo le ore
il lavorante prima di cena.
E poi quei i piedi, l’oceano che si svaga sui ciottoli
il sentiero
che indica improvvisa una birreria d’antichi
una modesta stanza di quadri nudi, un gatto
il fiero portamento di venti donne slave
piene di borse e coni gelato.
Qui, ne bevo.

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LA TENEREZZA

Che tenerezza la pelle d’oca, amore.
Che tenerezza che tu ostini ancora
a metterti soltanto una nuvola ai ginocchi;
tirandoti una gonna finita un po’ più giù
come le signorine nei bar
o nella piazza, sopra le grate
dove c’è l’aria che le spegne.
Che tenerezza se metti sul sedile
il piede per tagliarti le unghie,
e quelli fuori,
cominciano a guardare fino alla concessione.
E vanno lenti dopo i semafori, distratti
partecipi di quello spettacolo ch’è meglio
dei manifesti finti della reclame sui muri
dove culetti anonimi stan su con niente
e tutto, ci fa sembrare facile e comoda la vita.
Che tenerezza quando ti porti uno spillone
per dimezzare il cielo tra i seni
lì al lavoro, che cento occhi fanno i capezzoli
sciupati
e doloranti ora di sera.
O le ciabatte
per disertare i tacchi quando sei sola e stanca
e sotto poi ti sventoli come d’estate al mare.
Che tenerezza quando ti metti un fazzoletto
nel retro di una manica lisa
e poi ti giri, per stare sola con il tuo naso
e il tuo rumore
di fumatrice quasi pentita.
Si, mia cara, la tenerezza è un’arte
che non si impara a scuola;
l’ho vista sulla schiena una volta
ti lavavo
là dove non arrivi e non lo sopporti.
Sai, aveva la nigrizia di un neo,
la punta d’oro
e mentre respiravi, mi sorrideva
si.

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