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Archive for gennaio 2013

RITRATTO NUMERO DODICI

Così profondo alla carne, quell’anello
che quasi non vedevo la vanità dell’oro.
Come dell’inguine al ramo il suo colore
la bestia imprigionata alla fiera di paese
l’orso che balla,
lo scuro degli scoli.
Le mani, quando bruciano gli anni, sono rose
gettate giù da un ponte all’amante ch’è perduto;
le mani, quando bruciano gli anni
sono anguille. Lucertole e caproni alla piana
libri aperti.
Pulegge oliate e sorde catene, costruzioni
le cui fessure s’aprono il giorno
e n’esce luce.
Ne escono le madri coi seni decaduti
le briciole dei sogni passati
gli usignoli, intrappolati a notte
per confidenza estrema.

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Mi sanguina la bocca alla goliardia dell’olmo
alle vertebre che mostra, tornite
in pieno inverno.
È come l’uomo nudo celato dalla siepe
la volta che con altri compagni, giù al canale
si percorreva l’acqua come dei pesci rossi.
Reggeva il sesso come una spada
una bandiera;
grattando l’aria con un respiro lungo,
un pianto, venuto dove dentro ti muore ogni morale.
Corremmo
più veloci dei gatti
o dei tacchini,
che fanno salti come a pigliarsi un po’ di cielo.
Corremmo
come il tempo che ci fa oggi adulti
davanti a un oratorio di ragazzini, ignari
di quanta tenerezza è nel polso di una madre
o del veleno insetto che accendono quei vecchi
per fare due tirate
e poi spegnerlo col piede.
Corremmo come sette fratelli, e siamo uno.
Lo stesso piede al filo spinato
le braghette, lasciate per errore alla foce.
Si, corremmo.
Per evitare il male che sempre ci appartiene,
per dirci un giorno
– Sai, aveva il cuore malandato,
e forse la stanchezza del vivere, di tutti.

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CANTO

Io, per sentirmi vivo
m’arrotolo i calzoni
fino al ginocchio, e i piedi li snudo.
Vado al fosso
dove la luna punge, e fa il miele;
e con la cinta
traccio nell’aria segni di grandine e coltello.
Poi, della mia camicia
una vela mezza storta,
perché mi porti dove Calipso mi fa uomo
e vergini le orecchie a dei canti silenziosi.
Sotto la terra, poi, do una scossa ai morti soli
ai miei idoli di carta, le loro donne verdi
le triglie
e le fontane delle città di mare.

Io, per sentirmi vivo
ti busso, e aspetto il vino
il pane che vorrai regalarmi
i tuoi ginocchi; tremati per il troppo lavoro
rossi, e fermi
come il respiro a notte profonda.
Aspetto i seni
il dito del dolore te li ha sciupati un poco
ma nulla che non possa, la bocca
farli ancora
furiosi come i fichi d’estate
i rampicanti.

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MARISA

Il sole che pasteggia sull’aia
è un gregge unito.
E tu la cagna pronta a tenerlo,
il vigilante
la mano giudiziosa e il bastone.
Bianca e dritta
come una verga appena intagliata
come un cero, nell’isola notturna di Notre Dame.
Marisa
contadinella cosce di lupa
la mansueta. Marisa l’operaia
dei turni primi a inverno.
Marisa dei foulard sulle tette, scamiciata
ascelle perdonate dai sensi
gigli scuri.
Come più scuri sono i battelli di un vedere
per chi ha prestato occhi al telaio
al suo padrone.
Marisa proletaria, convento di paure.
Coraggio della lenza che affonda in acque dure.
Marisa allegoria delle api,
quando estate, ti veste come un fiore strategico
fruttato.
Quando i ginocchi unisci e ritiri il cavalletto
della tua moto quasi cinquanta;
e non hai occhiali
per tutti i moscerini della campagna, e in bocca
ti viene il sole della bellezza
sole d’aia.

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AMARO UOMO

Là sulla strada verde di melograni asciutti
ho visto le tue mani strappare pezzi al cielo
cercare, come calde colombe, un davanzale
la cima di una pietra venuta su dal nulla.
Moderno Lindberg senza l’oceano
tu, padre
che il solo traversare la piazza è impresa, ora
fatta di nafta e acciaio nei piedi.

Amaro sangue
come può essere amara la radice
la sputazzata
e poi gli otto giorni, il poche ferie
domeniche lavate da dio senza sapone.
Amaro sangue e quattro capelli scompagnati
slegati da una bava di vento.
Uomo amaro
ché il sonno ti sia acqua di lontra
la leggera.

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STILL LIFE

Come conchiglia
ch’è lascito di un fondo;
bellezza naturale che posa
e non si cura
di sbiechi arcobaleni in sue cavità più cieche.
Così quel ragazzetto col cane per la via
un soliloquio d’erba pestata
un fischio, due.
La carità ha voluto qui concepisse il nome
la bocca forestiera a bestemmie
l’aria in petto.
Più generosa quando l’età sta nelle mani
e i conti sono pubblici
netti, un bel richiamo
a nidi sopra gli alberi, a giochi
al desinare, in ore quasi sempre impossibili.
È in tensione
il fiore della vita soffiato:
oggi perdura
e qualche istante dopo è nel cuore della terra
nel delizioso campo inchiodato a margherite
che pare incontro al treno si gettino
talvolta, in giorni sopportati di vento
e di gazzarre.
Di squadre che contendono una sfera in cuoio,
e giacche,
gettate per far segno, sul prato, di confine.

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spero si tratti di un equivoco, ma appoggio sicuramente l’iniziativa

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MADRE

Mamma si lava i piedi,
sennò il suo fiore muore.
Si china
che mi sembra Maria sotto la croce
il bello di finire nei quadri
o nelle foto;
ma con la bocca chiusa
cucita dalla luna.
Il suo sorriso forte è di Venere Tranquilla
colei che ha nell’armadio vestiti in naftalina
e perle, provenienti dal Mare Dei Cipressi
venute su da foglie barbine.
Scavatori
ne hanno conosciuta la grazia, gli anni trenta
facendone collane, poi, andata via la guerra
la trebbia
e la pignatta col fondo nero, al fuoco.
Gli scavatori han detto che ha due orecchini tondi
da zingarella bene introdotta nella scuola;
le mani con il vizio di regalare mele.

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