Posted in poesia on gennaio 14, 2014|
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Scusate se vi parlo di radici, di alberi
coi frutti della malinconia.
Fu mia già dalla culla e la fonte, dal battezzo
dall’attimo in cui presi la forma del suo addome.
Fu mia dietro la tenda più scura di una stanza
dove di bianco c’era il suo seno e il mio succhiare.
Fu mia negli alberghetti di quarta in qualche mare
un mare quasi sempre tranquillo, e senza voce.
Fu mia sul treno per la città,
la più lontana,
sui fili del telefono guasto, nelle sere
due uova al tegamino e un giornale al comodino.
Fu mia guardando lei carezzare la sua fronte
mia zia sembrava un putto di cera, più serena
finito il male e il tempo dei vivi.
È sempre mia
e te ne verso un po’ quando nuda vieni a letto
col ventre che ha mio nome e profumo di gerani.
È mia, e fa rumore di pioggia, è nelle orecchie.
Mi parla come un prete nel suo confessionale.
Mi sale come il gusto di certi mandarini
comprati la vigilia del giorno di Natale;
è brodo di cappone tirata su la schiena
sulla spalliera, dietro Gesù.
Amici cari, scusate se vi parlo del sonno della terra
del mirto che è il suo sangue
e se scomodo poesia.
Ma ho un campanello fatto di primule e di viole
e quattrocentoventi maree nei giorni pari.
Ho qui, nella mia testa, l’idea che sarò un fiore
e tutti quanti voi, stesso prato
mille anni.
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