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Archive for marzo 2014

SEGNI PARTICOLARI

Potessi rivelarti di me che c’è oltre il nudo
oltre quest’ossa canne di vetro
oltre la calma.
Vedresti paperelle in un lago
e un tirasassi. La fretta con cui mangio un gelato;
e un po’ di noia
le sere che rimango da solo, senza un film
nessuno da chiamare
da accartocciare, qui, un corpo a corpo droga celeste
sesso
guai.
Vedresti me di fuori la scuola, senza madre
senza un ombrello e il moccio pesante.
Oppure l’uomo
i peli sopra il pube venuti a tredicianni.
Vedresti l’oratorio d’amore fatto bene
le pause, per scoparti negli occhi
il fiato molle
bagnarti fino averne mai basta.
Avresti testa, per fare le valige e lasciarmi;
avresti il meglio
lontana dall’acquatica penna del mio uccello.
Avresti una crociera sul Nilo
nipotini, un salvagente nella piscina
altre mani
a reggerti quel culo da Oscar.
Tutto nudo
sono la traduzione mediocre di un ragazzo
con dentro un praticello e un pallone
due boeri, le corde nuove per la chitarra
e poco altro.

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UN ALTRO TIPO DI BRIVIDI

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Ma questa cosa qui nessun libro te la dice.
Che mentre bevi il sesso all’amata
c’è la banda
e ventisei cavalli ti passano vicini.
I cherubini stendono l’ali ad asciugare
e per un poco pioggia la smette di scappare.
No, signori
non c’è calligrafia che racconti tutti i nervi
il tendine scoccato, il balzo di gazzella;
la corsa del felino che l’esce dalla bocca
il lago rosa in becchi e poi piume. Nessun libro
contiene quella tonda promessa dei suoi fianchi
né i miei capelli in dodici ottavi
mentre becco, sul ventre le granaglie che ha sparse
e poi si accende.

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MEMORIES

Se guardo indietro è anche per te, bambino mio.
Per queste mani ancora incomprese,
e per domani.
Perché io non lo vedo pulito
e un po’ m’angoscia.
E allora guardo al tempo in cui carezzavo un cane
il muso di un vitello, le piante smisurate.
Se guardo indietro è per farmi due tirate
nascosto dagli zii e dai miei vecchi, da me stesso.
È per trovare in fondo a ‘sto caos dei punti fermi
gli occhiali di Manuela sull’erba
per baciarmi, e avermi dentro gli occhi malati come un sole.
È per la paga bella sonante ed esibita
le rate della macchina davvero alla portata
i dischi dei Pink Floyd per sedurla, i suoi capelli
che con ostinazione trovavo nella bocca.
Se guardo indietro metto un uguale, e faccio il conto.
Divento un proletario felice, e mi commuovo
per l’epopea di tutti gli affetti, i bei principi.
Leggende buone a farci morire col sorriso.

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MOTO PERPETUO

La notte non mi smette di battere, non calma.
Non svuota questo oceano celeste
non mi tace.
Ho voglia di un lenzuolo leggero, quasi nullo;
del vuoto che precede due tuoni
d’esser foglia, terminazione ultima al mondo
e voglio te, la gemmazione del ritornare
e lo stupore. L’odore che sarà delle mele e delle rose.
No, non smette
questa mania dell’aria d’avermi in ogni poro
non smette questo sangue di rendermi perfetto
uno zufolo di bosco tra selve d’origami
palazzi duri come che v’abita, e si ama
legandosi sui polsi le vie sentimentali.
Non smette di beccarmi sul vetro l’usignolo
coi suoi pettegolezzi di un Eden mandarino;
non smette la tua ruvida linea della schiena
di fare bianca questa necessità di notte
di ticchettio da tempo supplementare, lungo.
Soltanto qualche decibel di percezione chiara
il movimento colto improvviso
un tuo riflesso.
La coscia che si apre come a colmarmi un vuoto.

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L’OFFICINA DEI FIORI

Così s’irriga un campo e una festa da battezzo,
la vena seducente di un tempo
bella bocca.
Io qui mi sposo al tempo che non conosce sconti
al vino sotto scala, la stufa col carbone.
Mi educo al silenzio
ch’è dignità e preghiera. Sorrido a chi tocca la fronte
ed è per grazia, per arte tutta sua
e per quel solco dentro al cuore.
Sorrido a quella donna col suo foulard di seta
a come pone cura agli occhiali ed altri oggetti.
Alla sua dignità di madonna coscienziosa.
Sorrido all’officina dei fiori, quelli stinti
al timido progresso di un uomo di cent’anni;
che ostina a non cadere col vento che c’è fuori.
Sorrido a te che avanzi il tuo pranzo da ospedale
per me che ne ho diritto migliore, e non ragioni.

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BRIVIDI

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BEATI GLI ULTIMI

Così, la quintessenza del patire
si mostra ricompensa a una vita di lavoro.
Ho ancora il fazzoletto annodato di quel sole
che biondo più del biondo frumento lo leccava.
Ho ancora il mio tridente alla destra e un finto mare
il mio carretto ch’è baleniera
e voi, piegati, con l’acqua nella sporta
poggiata tra le querce.
Gli istanti che mondare il sudore è cosa sacra
seduti all’armistizio di terra, paglia al vento
la trebbiatrice come mangusta per la via
che dritta porta al portico grande.
Qui mi acceco
riverberi del lago di Garda più distanti
la processione delle bagnanti già da maggio
distese sopra i sassi come le foglie morte;
per farsi domandare indirizzo e nome vero
per farsi offrire birra e gazzosa, un giro in moto
due salti alla balera di sabato, e poi andare.
Così la quintessenza del patire
presenta il conto a fine giornata, dio è scappato
lui che una settimana soltanto ha lavorato
che ci ha gettati come rifiuti ai letamai
chiamandoci beati, per non avere un cazzo
e santi servitori di un mondo contraffatto.
Così si resta, l’acqua al comò se viene sete
occhiali fondi e tosse molesta, e poi domande
milioni di perché nella bocca, sulla pelle.

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ZAPPA

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ORCHIDEA

Gli umori, come d’orto botanico, qui chiusi
richiamano il calore di certe estati fa.
Le mani non più rigide, snelle
tutte addosso.

Divaricata un attimo appena più di sconcio
il povero vestito già teso oltre il dovuto;
quella salita oltre confine che mi piace
e mi distrae da regole e strada.

Non dovresti
scapparmi via dagli occhi così,
senza le calze
col batticuore che mi fa sangue.

Verso casa
chiedendo quasi al caso di prolungare un poco
quest’agonia del vedo non vedo
questo abisso, dove poggiare almeno il pensiero.

O la tua mano
in obbedienza cieca, con stile da signora:
i tacchi ben piantati al cruscotto
indifferente, al mondo che si rompe tra finestrino e cielo.

Un sorso d’orchidea senza luna, ora che piove
il viso sconosciuto
privato,
non più tuo.

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