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Archive for marzo 2015

TULIPANI

sempre lo spettacolo della natura e di Stephy che la coglie…

I Fotolavori di Stephy

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Com’è che si colora un istante? chiedi a lei
alla donnaterramadre, alla viola nel bicchiere.
Chiedi alla cenere d’ombra,
alle sue labbra
ai calici del mistico io, a noi che siamo
venuti via con poco di vento,
marzo in tasca
il vetro delle sante parole, tulipani.
Tu rossa e un poco gialla nel petto,
io di luna, traverso ed elegiaco
chiuso, un bel bocciolo.

(Massimo Botturi)

Foto sempre mia.
Parole sempre di Massimo

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FREEDOM SUITE

Amo la linea che ti separa i seni.
L’amavo già che eri di un altro
e l’amerei
dovessi ancor poggiarti con lui
più trasalita, scioccata da parole diverse
d’altro amore.
Poiché non ti possiedo da mai
e nulla è scritto
che giovani si resti per sempre
sempre pieni, dell’umido stupore dei meli.
T’amo il solo
capitolo che nasce i respiri
li seduce, li oscura il pomeriggio dei lutti
li scintilla
nel vomere che insegna il piacere.
Amo gli inverni
le tue periferie dell’umore
le tue fughe
quel metterti traverso già nuda, ed imprecare;
la voce che s’abbassa le sere che ti chiama
il sogno che ti crede in diritto.
T’amo e basta
solenne come un quadro di Rembrandt
capriccioso, lunatico e maturo
le volte che ti tocco
per mettere memoria alle mani della donna.
E t’amo come certe serate che mia madre
cuciva le sue grandi promesse
e le mie calze; bagnata dalla luce
che piano si attenuava
venendo vecchia in ogni suo istante.
T’amo e basta
col piglio coscienzioso dei saggi
e con il folle, di quelli chiusi in celle di vento.
T’amo e basta
come mio padre ha amato il suo vecchio l’ultim’ora
facendogli la barba con cura, neanche un fiato
nemmeno un pianto che si vedesse.
Così, sciolto
e libero nel mio navigare in questa vita
che mi colora piedi e maniere;
in questo mare
di voci speculari alla mia, e anche alla tua.
Io t’amo la baldanza e l’oscuro delle pene
l’esuberanza e il ventre di madre
l’acqua chiara, che ti traversa quando sorridi
e l’acqua scura
delle tue numerose paure.
T’amo e basta
perché se guardo te vedo me
qui nella piana, come un cavallo prima del tempo
del diluvio;
come una prugna acerba e selvatica
lontana, ben oltre mille mani di ladro.
La più bella
nella sua libertà senza se
perché, o chissà.

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VOCI

La voce delle foglie quando è sera
ha niente a che vedere con mamma
o con l’amica
che nuda sta parlando al telefono.
Con te
che strilli le tue tante impazienze come niente
e sembri Rosa Luxemburg, fiera
il mio peccato, di gioventù anche adesso
che ne ho una fame boia.
Una fame da cantante da bar, da adolescente;
la fame di chi ha colto quell’attimo del
“vengo”
e ormai non me lo levo di dosso, è qui che sfrega
la testa come avessi i pidocchi
è qui che fotte,
mi prende come fossi il suo muscolo tirato
leccato come il pelo di un gatto.
Fame antica, delle preghiere là in prima fila
di ragazze, coperte fino al sacro di Venere
sedute, con le ginocchia un po’ birichine
un po’ a far figli.
La voce allo spezzare del pane, via anche il velo
la gola a far dei salti di gioia
gli orecchini, suonati come campanellini.
Voci maschie, uscite dalle grate del manicomio
– Capo, c’hai mica un po’ di fumo per caso?
sai, io sono, Napoleone e Lincoln insieme.
Voci crude
dei bimbi appresso un cane di pezza
una contesa, bastoni, urla oscene di guerra.
Voci rotte
cadute al pavimento di casa per tristezza
coraggio che ti viene a mancare, rabbia, sputi
e sangue come fosse mattanza.
Voci bianche
l’eunuco che qui vedi ha mischiato le sue carte
ha scelto un disco per la mattina, ha chiuso il gas.
E ha ancora nella testa quel “vengo”
Dio, che roba.

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GEMMA

un’altra felice collaborazione con Stephy

I Fotolavori di Stephy

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Da molto, da secoli, lontano
è quasi nullo il respiro
quasi foglia.
È regola del principe verde,
della Musa
la forza che si fabbrica un angolo
un ritaglio, coriandoli di cielo
un po’ equestre
un po’ sudato.
Da molto, da secoli, vicino
sei gemma di diamante e di latte
vena e linfa, il labbro
appiccicato del sole
il mio che suona
la musica dei bimbi nei prati,
il tuo, vivace.

(Massimo Botturi)

Foto, sempre, mia
Parole primaverili, sempre, di Massimo

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ROSSO

Rosso era lo smalto di Elvira
al mare, a Cervia
il pelo che lasciava sfuggire tra le gambe;
il gatto del barista che mi veniva ai piedi
per strofinarsi a mia gioventù.
E rosso è il fiore
quell’unico papavero annegato in mezzo al grano.
Rosso è il pianto
che un po’ ricorda la troppa gioia
il cielo a tratti, che mischia le sue viscere
e incontra la pianura.
E rosso è anche il colore delle scarpette al chiodo
l’amica mia fa un’ultima danza
poi si arrende, restituisce sogni e nastrini
a me la bocca
ch’è rossa più di un acero, di un pomo, di un dirupo.
È rossa è la mia lingua pettegola e ubriaca
la voglia che ho di dirgliene quattro
e poi di amarla, più rosso di un cerino eccitato
più concreto, di un posto là sul Monte Vulcano.
E rosso, ancora
più rosso è stato quando le ho prese, ed ho sputato
nel lavandino il fiotto di sangue
e fino agli occhi, sentivo il male e tutte le mani
navigare, venire su di me come fionde ammazza tori.
Ma rosso è anche il vino girato nel bicchiere
per bere un’altra volta da soli
e ricordare
che rosso era il colore delle mie guance, allora
che mi indicasti il ventre
abitato da due cuori.

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Ricordo che son stato bambino.
Adesso che ti cingo la vita, come allora
che dividevo il pane con lui
l’amico triste.
Ricordo i primi denti caduti
la moltiplicazione dei sogni;
mamma in strada, e il buio farsi largo tra i fumi.
Lo ricordo
e tu ricorda ch’è un bell’amore quest’andare
quest’augurarti notti serene, ora ch’è dura
la piuma del guanciale
la vena da tastare.
Ricorda i giorni della soffitta, il sole in chiesa
le volte che mostrasti a un ragazzo i piedi nudi
le piccole caviglie perfette
il suo futuro.

Oggi ho capito
ché il primo uccello qui è rinvenuto a far baccano
a consumarsi i canti alla pergola
e poi al secchio. Ad indorarmi pillole amare
a dirmi – caro, perpetua questo breve passare
c’è la luna, e l’ orbita dei suoi mancamenti
riempie il cielo.

Il pianto cresce alberi immensi sul cuscino.

Oggi ho capito
che è meglio far silenzio e baciarti sulla fronte
e togliere le tende al momento giusto.
Amore
i fiori del ciliegio faranno i vetri bianchi;
li muoveranno l’api tornate
e verso sera
ti porterò due paste per festa, piccoline
il giusto di bagnarci le labbra, e continuare.

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MI MANCHI

Per dirti che mi manchi
mi compro un palloncino, giù all’EUR
e poi lo lascio
e piango come certi bambini senza tempo
la testa tra le mani
il singhiozzo di un veliero.
Per dirti che mi manchi
ti metto mezza mano dove hai le gambe molli
e scorro le tue pagine stanche, come un libro
di tenerezze e colpi di reni;
bacio il petto
tuo madido e svuotato, come fosse di miele
o l’ultimo mio pasto da infante.
Annuso tutto
di te che credi nulla dei fiori avere in corpo
ti slaccio ogni magnetica fibbia, ogni pertugio
i peli delle gambe feroci
i fianchi andati, a farsi benedire nell’acqua del Giordano.
Per dirti che mi manchi
faccio l’amore piano
attento a non guidarti nel prato di tristezza.
Ti scordo, e ti ripiglio
mi lascio andare
godo
l’istante che ti ho avuta nella tua casa prima
le calze nere, il pube colomba.
Presto donna.

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LEGGERO

Tienilo saldo, amore
quest’uomo accartocciato e un po’ stanco
arriva il vento.
Ed io sono leggero
senz’ombra, quasi foglia.
Come un belato in posti di altrove
imprecisati
lontani mille miglia da questi scavatori
da questi tappezzieri di terra e costruzioni.
Leggero ed invisibile al tatto, questo sono
se le tue mani vagano deboli e zitelle
sull’arpa delle notti inconcluse, amareggiate.
Leggero come il vino novello
e il mio silenzio
nelle tue orecchie fatte di burro, nel tuo naso
dove l’odore marcio dei fuochi t’ha reclusa.
Leggero come il salice
che sembra una bambina, coi piedi in acqua fredda
e fa voce argento, pura
schiamazza tutto il bello degli anni spettinati
degli anni con la lirica in corpo, nelle gambe
nel sesso più leggero di tutto.
Si, leggero
leggero come fa il tulipano un mezzo inchino
come la voglia d’aria di mare sulla fronte
di una panchina nuda di stelle
come il lupo, sedotto dalle tette di Luna.
Come il sasso
che faccio rimbalzare per sette volte sette
come la fissità del tuo sguardo quando hai sete
e temi di svegliarmi col pomo della gola.
Leggero come il nardo, l’occhio della madonna
il bucaneve, il mirto.
Leggero come quando saluto da lontano
e tu disegni il vetro dei nostri mancamenti
addii della durata un istante, senza pianto.
Leggero come il sonno dei vecchi
come il palmo
toccandoti la guancia scavata, e sembra grano
la punta di una spiga matura
un osso cavo, leggero come quello dei passeri
dei merli, di quelle tortorelle vedute su in soffitta.

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L’ilarità degli infedeli, il peso
le mitiche ascensioni
e le mani nella terra.
Il doposcuola pazzo degli angeli
il vulcano, nascosto nel dialetto
e nei calici; il lavoro
il sonno delle due meno un quarto
i piedi gonfi
i denti da poggiare al lavabo.
L’uomo sfatto
cantore di miseria e di donne da sognare;
galanterie di un tempo che fu
tra l’operoso, e dei cioccolatini incartati.
Un’agendina
col numero di quelli lontani
e le chiamate, a voce alta come t’uscisse una canzone.
Auguri padre
ti porterò la grappa dei vecchi
oppure niente; soltanto questa faccia che corre
un po’ la tua
un po’ banale e piena di musica, passioni
silenzi programmati
ed altri naturali.
Perché c’abbiamo poco da dire
io e te insieme, ma farlo manda su gli astronauti
e cresce il grano.

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