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Archive for dicembre 2015

SENSI – VISTA

Con gli occhi del vapore, del treno
e della talpa magnetica;
del faro, ciclope dio del mare finito
quello duro.
Con gli occhi dei cetacei, dei bimbi appena nati
trafitti con spilloni di Gerico, col fuoco.
Con gli occhi di chi t’ha vista nuda
ed era prima, che Eva percepisse una mela
la mordesse
giungesse con la mano alla vulva ed esultasse.
Con quest’altri
svitati e pieni di cose matte
col pensiero, che buca anche il cemento
e le dodici ferriere
da qui fino in provincia di Bergamo.
Col foro, mirino telescopico di precisione antica
con testa d’ape e capocchia d’ago
coi belati, di chi ha odorato il lupo
e l’ha visto dentro il cuore.
Con l’occhio dei prelievi, lo spogliatoio
il nero: la riga degli slip che ti bacia
col veliero
di quando faccio l’onda tra i fianchi tuoi di lago.
Con gli occhi delle nottole ai coppi
delle cince, delle falene a tiro di abbaglio.
Come Omero
quando racconto delle città e fai per toccare
le mie pupille un poco stupita
e lasci andare, ogni attenzione, ogni emozione
e dici, vedo.
Con gli occhi che hanno buchi a memoria
troppo spazio, tra questa cattedrale di cedri e città d’arte.
Con gli occhi solitari e contenti, sempre in viaggio
all’ombra di una panca che sta sull’ingranaggio
la ruota dentellata dell’universo freddo
del miope mandarino risorto
della luna, dal muso di coniglio e civetta.
Con il cuore
purgato delle risse passate, io e lei nudi
– tu sei dentro di me mi diceva
e la guardavo
come si guarda un mondo di vetro, una bottiglia
piena di perfezione e velieri
una prigione, le mura degli amanti che ridono per poco.
Con gli occhi dei pagliacci da circo, il naso rosso
e una malinconia tanto al chilo:
gli occhi pesti, di questo dormir poco e veloce
occhi marini
l’arcobaleno in pancia dell’acqua, poca vela
la calma piatta prima dell’onda, prima verde
poi turbine turchese, di sangue.
Amore, vedo.

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VENTI

Venti i gradini e le perle della brina
tra i ferri nudi del corrimano ed il cortile.
Venti le ragnatele nel buio della latrina
i vetri della casa dei ricchi, là di fronte
venti leoni di pietra nel giardino
le ortensie vanitose, le strade del paese.
Venti li ha avuti mio padre via soldato
mangiava anche tre volte in un giorno, ed era festa.
Venti li ha avuti mia madre, di gennaio
Il trentasei di piede tra primule e castani.
Venti li ha avuti tua madre, e dio ti giuro
che gli alberi africani fanno lo stesso effetto.
Li ho avuti anch’io e pioveva di brutto
ero in Friuli, gavetta in mano e dentro la febbre dell’inferno.
Avevo le bandiere del non va bene niente
una morosa a casa e l’uccello sempre duro.
E venti li hai adesso anche tu, che mangi rabbia
e pensi come uno che ha visto proprio tutto.
Ricordi? ti chiamai melograno, e vidi giusto
avevi il sangue a grani, capace a deflagrare.
E allora dico – fai un po’ vedere a chi ti infama
ti toglie libertà nel futuro e imbesuisce;
che tieni gambe buone e coscienza
mai paura.

per i vent’anni di mio figlio Davide

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IL MARE

E’ come la sorella minore, un po’ viziata
la voce che non ti fa dormire, i suoi segreti
gli amori di cristallo
leggende di paese; quando a finestre chiuse
s’aggirano gli spettri, e i campi sono cani da guardia.
Il mare è amnio
è l’utero dei rombi e dei salici piegati
è il tulle della costa che vi ribolle e danza
è l’occhio enciclopedico di dio sopra ogni cosa.
Il mare ha sempre America in fondo
un nuovo mondo, dove finisce ciò che non vedi;
ha sempre voglia
di muoversi nei tuoi orifizi e copulare
ha voglia di orinare sui tronchi e di grattarsi
di uscire un continente più in là e far quattro salti.
Ha voglia di guardare mia madre che non l’ama
soltanto perché l’era proibito.
Il mare è tromba
il ventre di un grammofono in cattive condizioni
è il cruciverba delle balene ad Acapulco
cinquantasei seguirono Mingus, chissà dove.

il grande musicista soccombe il 5 gennaio 1979, all’età di 56 anni: lo stesso giorno, sulla spiaggia di Acapulco, si arenarono 56 capodogli.

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AUGURI A MANOVELLA

E’ l’ora degli artisti senza trapezio e rete
dei nasi rossi e un cerchio di terra
del ruggito, dei gatti che si stendono qui.
L’altro Natale
la perla dentro l’anno che splende da far suo
un nocciolo sputato nel piatto
una sirena, che dice niente turni stamane
niente file, né musi lunghi ai tram
sotto pelle e pensilina.
E’ il venerdì dell’arte di radersi, e tornare
indietro a quella notte che non dormisti affatto
attento ad ogni piccolo passo, ogni rumore.
E’ l’ora che il bisogno di crederci era tutto
che il salto con la corda veniva proprio bene;
è l’ora di sculture in mollica, latte e sale
delle carezze spesso negate
e il desiderio, che sotto luminarie scontate
un’altra luce
ci turbi ed alimenti il coraggio.
Quella nuda
che produciamo quando ci amiamo
il resto è niente.

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I MORTI

Siamo morti, un po’ di rispetto per favore.
Non calpestiamo il prato a nessuno
non un grido; veniamo in sogno molto di rado
siamo aria
il secco delle prugne in un cesto, il suono solo
di un foglio perso in tipografia.
Leggero assolo, che aggiunge poco e niente ai pianeti
a tutto il nero, che c’è tra zolfanello di luce e Cassiopea.
Vi ho detto siamo morti
non ci vedete affatto; non ci stupisce il bello di un’isola
o di un monte, sul quale il monastero degli ultimi ha la sede.
Non ci ferisce il puzzo dei fiori, la leggenda
che noi qui si salvasse qualcosa: patria, onore
la dignità o l’orgoglio dei padri. Siamo morti
più di una volta quando fa il grano e niente amanti
nascosti in mezzo a darsele forte, sulla bocca
su fianchi nudi di porcellana.
Siamo morti
se il mare getta bimbi e non ossi bianchi seppia
se il cielo è tinto con l’aviazione ed ogni suono
è il crollo di una casa per mano dei padroni.
Noi siamo morti, un po’ di rispetto per favore.

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POSOLOGIA DELLA POESIA

Una al giorno, al mese, in una vita.
Ma che contenga la spesa, il tuo respiro
un poco di clamore di quando eri bambino
i lividi ai ginocchi e le croste ormai rapprese.
Una soltanto di natiche perfette
di movimento acrobata e semplice, una sola
come fosse la foglia nel libro dei peccati:
pagina tre mai dirle di no, né mai tradirla.
Una soltanto al gusto di fragola, al domani
a quando non potrai più pagare, a quando il cielo
sarà sbarbato a nuvole e panna. Una soltanto
come la vita un poco distratta, un poco scema
come la vita troppo precisa, il niente amore
o il tutto in ogni cosa che fai, bell’impastata
timore zero dopo lo scoscio d’acqua e sale;
tirata come sfoglia per farci la minestra
tirata come freccia di fuori la finestra
fino al cortile d’Anna e le trecce, fino al mare
che cresce dentro il naso e la Lombardia malata.
Una che c’abbia i capezzoli ben duri
che piaccia al gusto e n’esca del latte, una madre
sorella amante o semplice amica.
Una bionda, ritocco alla radice su appuntamento
bella
ma anche se non svengo a guardarla non fa niente.
Una che dentro ci ha messo classi miste
un banco avanti c’era l’amore, dietro il vuoto
un povero alle Gescal
la gomma da mangiare. Una che un po’ di miscela
e via si andava
a prenderci del sole e gli sputi degli uccelli
una che viverti nuda è stato bello
emozionante e ancora mi eccito. Una sola
ma quando è proprio lì che ti scappa
e non puoi niente, la penna va veloce, come un ciclista al Giro
le gambe sono ferme per via di gravità
ma corrono in pensieri di fulmine, di tuono
diventano il motore di Johnson o Mennea
diventano dei cristi che sanno tutto fare
dei cingoli alla terra da arare, nebulose
per quando leggerai questa fame di bellezza
e d’immortalità un poco mistica
e un po’ troia.

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ALLE TUE MANI

Alle tue mani un tempo feroci do il mio petto
non lo denudo in abili mosse
non seduco, la primula d’inverno con versi generosi.
Ho smesso di mostrarmi ai regnanti
e di cantare;
poiché la quiete è il volto di dio
non lo rinnego, adesso che ti sento il respiro farsi acqua
la piazza manifesta più fredda
e il tuo lamento, da uccella di deserto notturno.
E’ odore nuovo
quello che sale a mezz’aria al tuo giaciglio
odore di capelli tagliati, e di mutande
distese ad asciugare su grucce di fortuna.
E’ il brivido che mette la lotta, la sconfitta
ma anche la sottile lucina sotto porta
la gemma che credevi già morta, il verde chiaro
che fa la vita quando riprende.
E tu la ami,
di nuovo come al tempo di giugno in questi prati
le biciclette a ritmo di piante, il grano a sciami
venuto grande come l’amore.
Alle tue mani, affido la poesia del tacere
la pazienza, la confidenza adesso risorta
la pianura
dell’uomo ancora semplice e mite.
Alle tue mani.

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JONI MITCHELL

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SENSI – TATTO

Eppure non ce n’è come stare qui a toccarti
la pelle mangia via anche gli affanni, le menate
questo pensiero scemo d’averne due vicini:
dei buchi nella terra per stare ancora insieme
quando a toccarci il ventre sarà l’abete, o il faggio
la tenera radice dell’erba Spagna.
Amore, per me toccare è entrare di testa
farmi uno, col solido cantiere del mondo
è farmi aria, o acqua quando mandi giù tutto
e fai la brava.
Per me toccare è un volo di rondine al fossato
la presa dentro il becco del meglio
è dirti ciao, ogni mattina quando ti svegli
e poi sorridi.
Toccare è farmi anello di albero, i suoi anni
il mago d’Oz dei cerchi nell’acqua
fa mestiere, accordatore al cambio di umore
al giallo ocra, di questa nebbiolina campestre.
Tocco il vento
il Dio della ramazza che sbarba le colline
il pane duro della domenica, il sentiero
tra gli inguini beati e violetti.
Tocco il manto
di tutte le madonne dal nome di Maria
le tocco per ricordo di madre, di mercato
di scampoli di tela e di arance. Tocco tutti
gli amici convenuti alla lapide, alla terra
al fresco di un autunno volgare, se ti prende
se ti fa foglia secca che ancora avevi amore
e seme acrobazia e filiazione.
Tocco il miele
lo rubo alla saggezza di api clandestine
mi nutro della pappa novella, dei tuoi anni
passati in un androne a scoprirti dove vive
germoglia e poi fiorisce il piacere.
Si, toccare
è questo saliscendi di lingua, è l’ozio estivo
delle tue dita in cerca di me, Adamo infante.
E’ il parapiglia sordo dei tuoi bottoni d’osso
l’urgenza di segnarti sul seno il canto giusto
la via per annullare i dolori, per restare
a metterci dei sassi a rimbalzo.
Noi palude, gramigna e ortica, e dopo calendula
toccati, per fare che il colore risalti alle macerie
alle manie del cuore di farsi triste e lento
per fare che il dolore diventi pane e cacio
un bel risentimento di labbra, anche sfiorate
mettendoci la poca distanza, quella giusta
che mai non sfama e attizza le attese.
Si, toccare
sentire come cambia la valle
il tuo costato, la curva dei sentieri dei muli
il mondo oscuro, che stringi tra le gambe
e sospingi dal midollo
la forza cieca che fa il vulcano, la risaia
la partoriente terra di sempre
da toccare.

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SENSI – UDITO

Si fa l’amore con la parola A
un suono aperto
esperto
volgare quasi mai.
Si fa l’amore e si ascolta il cip e ciap
di carne macellata in un rito
ascolto te, la trattenuta in valle di lacrime.
Dio mio, spegnete queste radio nostalgiche
dio mio, che suono hai?
È quello di uno stelo al pagliaio, è quello me
sulle scalette della Metrò
col naso in su, rumore di poeta intristito
di via vai. Di Piazza Duomo senza piccioni.
Ascolto te
passo su passo in Via Paolo Sarpi, un bel refrain
fuori da un bar di cinesi
ascolto noi, la fretta di infilarci in un angolo di mai.
Ascolto quando hai fame e c’è un rospo dentro te
il disco che fa random, un blues trent’anni fa.
Ascolto l’acqua dentro i canali, l’erba, lì
venire verde come i tuoi occhi, ascolto te
sul lungomare col tuo bambino. Ascolto lei
mentre si gratta sotto le calze
ascolto voi, ingenui di bellezza
e di grandi vastità. Ascolto le ragioni che hai di dirmi no
le stelle senza olio che cigolano su
le ascolto come fa il mio meccanico con me.
Ascolto tutto quanto mi arriva, anche di più:
se chiudo queste orecchie di cera sento dio
il canto delle mille sirene, il fiato blu
che c’hanno le galline in cortile. Ascolto Miles
e Joni e quel gattaccio del blues di B.B. King
ascolto l’orologio ch’è fermo, il suo can can
fermato da un granello di polvere. Il bidet
che guarda bene dentro le impurità che hai
ascolto il campanile dei morti, dei vivai
le rose aprire il becco alle api, ascolto noi
che non facciamo niente.
Cinque minuti, dai.

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