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Archive for giugno 2016

LE COLOMBE

Talvolta luminose hai le mani
piene d’ira
e cose che vorresti afferrare. Altre taglienti
rivolte alla tua fronte come sul sole estivo.
Per via forse del rosso veleno che ti sale
inetta alle giostrine d’amore, al po’ di senso
d’un liquido futuro sparito.
A volte paghe
stoccate con la santa memoria verso il pane
danzate sulla frutta che spogli, come un uomo
ha fatto mille volte con te.
Talvolta cieche, di aria sopra gli occhi pestati
occhi bucati
dai quali perdi l’acqua del nascere.
Ed è fiume, un caldo serpicello d’innocua resistenza
un timido convoglio di sale che avvicina
la bocca a quel sapore un po’ amaro e capriccioso
che ha il cuore delle cose perdute.
A volte amo
trovarle alle ginocchia dell’uomo che conosci
là ferme come al grano, colombe
senza voglia
di andarsene lontane, né spine di timore.

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Sono arrivato tardi alla poesia
ero troppo preso, a farmi il culo nelle officine
o nelle piazze, ad indicare vecchie stazioni
alle signore. Sono arrivato o forse per niente
ancora dormo, su quegli allori fatti di croste
ginocchiate, di erba che sporcava i calzini
angurie e vino. Sono arrivato tardi
e non l’ho imparata bene, mi fa paura quella cadrega
ho il fiato corto, per troppo cincischiare alla gonna
di una lei, che mi voleva tutte le sere, ed era bello.
Sono arrivato tardi, è solo colpa mia
non m’ha aspettato mamma, non m’ha aspettato un padre
non m’ha aspettato e si è fatta amante, più lontana
per piangermi e capirmi più a fondo:
la mia donna, ma si è voltata indietro tre volte
una per gioia, ruffiana come certe domeniche.
Poi un’altra, fingendo di fermarsi per bere alla fontana
vedevo le sue labbra sedurre l’acqua, e me
vedevo le sue labbra di quei minuti prima
succhiate e morsicate alle mie. Poi fu la terza
col secco nelle mani e negli occhi, un’erba nuova
capita solamente lasciata presunzione, capita
come certe poesie venute tardi, ma intatte nella polpa
senza la buccia, buone.

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La poesia è il risultato di una sega mentale
e ti fa stare bene, per sei minuti o sette.
Poi ricomincia il cielo
e l’albero che miagola, e il cagnetto dei vicini.
Poi ricomincia l’unto dei piatti, il saliscendi
di un figlio col futuro nel cesso.
Poi una donna
che somigliava al Mediterraneo,
ed i suoi occhi, che vedono due ombre e il suo uomo
il suo calore, i muscoli mancati, le sillabe sul cuore.
Poi ricomincia la nostalgia, la voglia matta
di quella volta mani sul muro, me di dietro
a perquisirle nuda ogni cosa.
Poi i rumori, le macchine con mille lucine
i pazzi in strada. I vetri di Milano che mangiano l’azzurro.
Poi ricomincia il salto con l’asta
il mendicante, la bella della mensa che non te l’ha mai data.
Poi ricomincia, scusi se fumo, ma le pare
le offrirei un caffè ma c’è il rischio
che dopo m’innamori, e allora sono guai.

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SEGNI PARTICOLARI

Il mio amore è la culla dei soldati
un libro con le unghie per segno;
ha le esplosioni
la ritirata poco strategica, l’attacco
massiccio ed improvviso sulle città civili.
L’amore che giocava sul prezzo giù ai mercati
ha regalato quello che aveva ad un nessuno
a un sottotetto e dieci piccioni
ha fatto l’acqua, due dita di pipì per sporcarla.
E’ una baracca, ed io il ragazzo che fa l’indiano
guardo il prato
aspetto che il bisonte finisca di mangiare.
L’amore mio è una casa di pescatori a Creta
le passa l’aria e neanche si accorge, è bianca
e il sole, le spacca le venuzze dei piedi.
La mia donna, il sangue secco non lo conosce
ha sempre sete; è cena degli apostoli e si tradisce sola
sa già come finisce la storia
ha il peso morto, di un legno sulle spalle
e una spugna con l’aceto.
L’amore mio è senz’ombra sul muro, è una falena
si apre come un fiore se poi la sai toccare.
Conosce le parole dei morti
sa di fumo, di tabaccai vestiti da schifo
di cotone.
Conosce le rinunce furenti da illibata.
Le smancerie la fanno smorfiosa e un poco ingenua
sa come fare dietro di sé cortei di merli
baluba dalla bava perenne.
La mia donna
è come un tabernacolo laico, ed io le credo
mi faccio prete e poi non la prego, la seduco
col battibecco e un po’ di eloquenza
con le mani, e cose nell’orecchio
che non dirò a nessuna.

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EMOZIONATEVI

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IO SONO VIVO

A volte penso ad altre,
perché le posso avere.
Nel delicato modo che ho di rinunciare
di raccontare loro che i seni sono rose
e vanno contemplati col cuore dell’artista;
lavandosi le mani per bene
e poi in ginocchio
come se il pentimento sincero ci volesse
nell’aver solo voglia di coglierle.
Le volte
tu non lo sai ma vengo sedotto
forse preso.
Lo riconosco dalle carezze e dall’ardore;
dal modo di sfiorarmi passando, e quella storia
che poi ne esce a farci distanti.
A volte tremo
se penso che ‘sta cosa è peccato. Ma sorrido
e lascio che mi accada
perché io sono vivo.

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MISTERO DELLA FEDE

Stamani ti propongo un affare:
una veranda, un succo di limone e una mezza ferie
fuori
davanti alle ciliege che friggono nel sole.
Facciamo noi i dottori del mondo
noi e la grazia, quel maturare lento di rosso
come gli anni, i nostri a far peccati indicibili;
noi e l’aria, l’azzurra sordità degli uccelli
e il nostro umore, andato un po’ a puttane le volte
ma preciso, se insieme al corpo esulta il pensiero
la certezza, che averci addosso è il solo impagabile valore.
Stamani ti propongo un affare:
voglio niente, sotto la gonna a fiori che non sia tu
più vera, proibita e aperta il giusto
come una cattedrale.
Guardare e poi toccare, mistero della fede.

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SCRIVO IL CORPO

Io scrivo troppo piano e leggero per la pietra
per rimanere gli anni segreti e poi scolpiti.
Per fare che qualcuno si fermi il pomeriggio;
che poi c’aveva niente da fare ed è passato
a chiedersi chi fosse quel gambo di sambuco
quel fiore ottone bei finimenti.
Scrivo terra
e quella non si ferma un istante, scrivo acqua
coi cerchi del ventotto, che ora sono adulto.
E scrivo con pistole di aria e inchiostro seme
col piscio sulla neve, un legnetto sulla sabbia.
Io scrivo sulla guancia di quelli che saluto
le labbra sono un furto che adoro
senza prove, né punizione di chi è bigotto.
Scrivo il corpo
la bocca che ho lavato e che porgo a chi la vuole.
Non temo che qualcuno mi scordi
sono in pace.

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CELESTE di Massimo Botturi

lo splendio omaggio dell’amico Luigi, al quale va tutta la mia stima sincera e l’immensa gratitudine

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IL PUDORE

Adesso t’è cresciuto il pudore
quando meno
dell’enfasi di un tempo godiamo;
adesso è strano
rivolgerti la supplica al seno perché veda
di te l’essenza e la martoriata.
Adesso taci, parole innamorate e perverse
vale il gesto, l’estate di una piccola mano
e il tuo dormire, carnevalata sopra le spalle.
Poiché il cielo
ha dato a me i colori per ricoprirti intera
nel gelo innaturale del maggio, nella piova
che tanto ci ricorda quel piangere mansueto
dei figli alla cacciata del primo amore.
Nudi
lo siamo ben più dentro di certi giorni andati
più degli amanti che cercano riparo
in un albergo dove c’è mare, aria sottile
nessuno per la via a una cert’ora
e il sonno, dopo.

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