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Archive for dicembre 2016

IO TI TOCCO

E faccio te una radio a galena, un notiziario
da decifrare in pace e tormento.
Tocco il grano, la sciabola che giudica l’erba
il rozzo e il fine, della città che vide mio padre.
Tocco l’ossa
come la carità dentro un velo, quella intera
nell’incavo di uno che ha sete;
e io ti tocco, recido la campana dei morti
sembri seta
la consistenza mezza inventata di una calla
un tulipano uscito di senno.
Sembri aria, un giro in giostra e l’orlo scucito
scarpe e calze, nel tango dell’infanzia raggiante.
Tocco il meglio
e quello che mi neghi da martire attempata
e tocco le abluzioni nella tua acquasantiera
le labbra screpolate che cerchi di lenire
con telo di Penelope e burro di canzoni.
E tocco la viltà dei dottori, la maniera
di venerare il freddo di un letto, le sue vele
incipriate a canfora e calce.
Tocco il melo, sul quale fosti prova di dea
le sue escrescenze, le fioriture e il nudo di agosto.
Io ti tocco.

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Coi piedi adolescenti
io l’ho aspettata sempre
di fuori da una fabbrica, nel mezzo di un cortile;
nella ferocia inverna del niente foglie
sempre.
L’ho circuita
fatta tremare come fa il vento, l’ho guardata
nella ricchezza rossa dei frutti
nella pace, che la miseria spoglia produce.
E poi salita
per aggiustarle i rami confusi dagli uccelli.
L’ho asciugata
e poi bagnata di me soltanto, me svuotato
zittendola talvolta col bacio sulla bocca.
La donna mia che è un albero suo che non conosco
che onoro col mio esserle accanto
coi miei occhi, appesi alle sottane delle impiegate belle.
La donna mia che è un cero pasquale senza chiesa
una serata lampi lontani, una maniglia
sul mondo che precipita i fasti, la bellezza.
La donna mia che è un parto di api, un oleandro
il canto simultaneo di due balene a notte.
La donna mia che ha dodici vite e le ha mangiate.
La donna mia che è unghia di terra, il mio costato
lo scheletro dell’uscire presto e del tornare.
La donna mia che è un albero triste, un olio santo
la purga dei bambini del sabato, un battello
un pozzo differente da tutto.
Lei che è me, bottega di paese con la farina e il vino.
Lei che mi bevve il sesso con salti da campione
col volo delle rondini ai fili, con due Gloria
e un Pater Noster per penitenza.
La mia donna
che parla lingue fatte contrada
che ha due arance, sul tavolo di nonna in Via Villoresi sei.
La donna mia che non mi appartiene, il suo bicchiere
per poi la testa indietro e le tette in alto mare.
La donna mia che è latte di pecora e un ditale
per quando mi cuciva i calzini.
lei che è miele.
La donna mia che ha mille pertugi, mille anni
e code di lucertola nei giochi di bambina.
La donna mia che non mette il sale
che si nuda, se le mie mani sono vicine. La sua gioia
di un tabaccaio aperto, una vincita, un prelievo.
La strafottenza delle sue gambe in bicicletta
il pelo che le esce dal pizzo, e altro ancora.
La donna mia concreta e gentile, la noiosa
la donna mia che fuma sull’uscio e fa le smorfie
a un Cristo di paese che la vorrebbe sposa.
La donna mia che vomita incenso, i suoi capelli
con dentro passeggiate di cervi e batticuore.
La donna mia che sputa a fatica, che non gode
che tocca le persiane per separare il tutto
il giorno dalla notte, e me, dal suo dolore.
La donna mia che annusa le rose e poi sorride
ringrazia per il bel paragone
poi si oscura.

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PICCOLO QUADRETTO DEL NORD

In tutto questo, amici
poesia è la donna nella cucina
il caffè freddo. Quel suo chiamarmi
due volte o tre, poi rassegnarsi
al fatto che dai vetri in inverno viene meno
la luce e l’orifizio del cielo.
E’ lei l’artista
protagonista, forse malgrado, di qualcosa
di cui farebbe a meno, sposato un uomo ricco
in qualche posto meno cattolico
lontano, dal rettilineo che porta all’Alfa.
Li osservavo
tutti quegli operai al turno primo, il fiato duro
le biciclette un po’ prese a nolo e un po’ rubate.
Le sciarpe arrotolate alla bocca
che per dire, serviva qualche donna a passeggio
o un gol del Milan.
Ma in tutto questo, amici, è lei la mia poesia
lo scialle per le scale fin giù nella dispensa
la borsa pronta per il lavoro, e me, guardato
l’ultima volta prima di uscire.
Ecco, è tutto.

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NELLE COSE

Lasciamola alle cagne di paese
al latte delle pecore perduto sull’asfalto.
Lasciamo la poesia all’Omero sulla barca
le tre di notte in cerca di sgombri
alle ragazze, cappello per nascondere il capo
il femminile, il bello dello scioglierli tutti dentro il piatto.
Lasciamo la poesia ai parrucchieri prezzo fisso
a quei bambini poco giudizio, al buon governo.
Lasciamo la poesia ai manufatti, agli artigiani
al prete che ti sposa con cento euro appena;
al tempo che sprigiona le foglie e liscia il marmo
all’acqua della piova che intasa le grondaie.
Lasciamola al tuo seno sparito
al buon umore, finito sotto i piedi talvolta
poi rinato.
Lasciamo la poesia ai serbatoi col galleggiante
all’indice di borsa ch’è moccio di bambino;
lasciamola ai porelli del mondo
quelli offesi, nascosti sotto il mare e la morte.
Ai mendicanti, ai falsi claudicanti
e ai signori con la rogna. Lasciamola invecchiare
che dopo sarà aceto
rovinerà la festa e la bocca. Non c’è tempo.
adesso per frignare sui cocci, sull’amore
uscito dalla porta dei servi e più tornato.
Non c’è più tempo falce e martello, niente amici
da metterli qui intorno per i tuoi versi vuoti
per tutte le bottiglie già infrante in una sera
e sparse per la strada da vandali attempati
professionisti della paura, del sospetto
che prima o poi si muoia comunque.
E allora, amici, lasciamo la poesia al banco frigo
o sotto il sole, se sono rose chi se ne frega
fioriranno?

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BIANCA

A impararle giuste
le mani fredde avrebbero pace
frasi lunghe.
Ché ci si abitua piano al dolore
al peso grave, di un’esistenza occhi negli occhi
di una donna, che spezza il vetro delle visioni
e pianta in terra, i semi del far luce e degli anni.
A pensar bene
me le terrei vicine alla bocca, come i bimbi
che addestrano la neve alle loro circostanze
facendone sculture di gioia e d’innocenza.
Le metterei alle tempie per le febbrate alte
per dirmi la presenza di te, quando vai via
e t’addormenti come morissi
poco a poco, sciupata nel tuo peso perduto
smunta
bianca.

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