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Archive for Maggio 2017

RUMORE DI FONDO

Mi chiedi sempre cos’è che spinge l’acqua
in brevi salterelli fino alla riva
e ai piedi.
Mi chiedi quello che non conosco
il volto al vento, le dita piccoline dell’aria
e lo sai bene. Ma è tenero ti finga quel poco ragazzina
così, per farti fare una corte sempre nuova.
Perché da quella volta hai cambiato faccia e vita
ti sei riempita tutta di efelidi e peluria.
Sei stata bene fino ai cinquanta.
Vieni, dunque
a chiedermi le cose minuscole e importanti
e quelle gigantesche senza risposta alcuna.
Mettiti bene di fronte a questo sole
voglio l’incendio a navi nemiche; ché sei lente
a te attraverso vedo la Storia fatta insieme.

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E AD ESSE TORNO

Prima di conoscere mia madre, mio padre
il giallo ocra.
Prima delle bandiere portate in bicicletta
dei fili lunghi e bianchi tirati al lavatoio.
Prima dei vecchi e i denti perduti
il puzzo e i cani, prima del vino sfuso
e il prosciutto a mezzo etto.
Prima di sorgere ad Est, Lazzaro pigro
prima del sole a pezzi del Nord e l’alfabeto.
Prima della maestra e il suo rosso sulle labbra
del collo di pelliccia della padrona, e il libro
col quale andavo a fare la spesa.
Prima ancora
che mettere due lettere in fila fosse amore.
Prima dei numeri pari, delle onde, dei carri
e del letame ammucchiato. Prima ancora
che due s’innamorassero pieni, venne luce
il tempo di un orgasmo sfuggito di mitraglia
il tempo di una biscia scappata in mezzo all’erba
di un’ostia consacrata al palato, di una spinta
il tempo dell’atomica e di una genuflessione.
Il tempo di una mano dentro l’acquasantiera
di un martire dipinto sul muro, un sacerdote
una che aveva fuori le tette per nutrirmi
una che aveva fuori le gambe per l’estate.
Prima dei morti e di questa cruna d’ago
del monte quando piove e dei funghi
prima ancora, che ai palmi mi ficcassero chiodi
venne aria, e neve butterata di viole e ciclamini
e acqua per le vacche ed i tori
il peso esatto, concesso ad ogni forma vivente
e ad esse torno.

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IL RUMORE DELLE DONNE

La donna fa spesso rumore di uomo
la senti scavare nel letto una piaga
mandare col corpo segnali d’attrito
di stipiti fatti saltare coi denti.
A volte il rumore è un frinire costante
un salamelecco di guai e portamento
in altre una rondine in cerca di gronde
di foglie spezzate, di rose cadute.
A volte il rumore ha le ruote a pedali
il suono orchestrale di un gancio sui seni
in altre è un rigurgito caldo di cibo
d’avanzi lasciati per giorni nel frigo.
E spesso il rumore si appiccica addosso
le fa somigliare alle pecore al prato;
a volte fan acqua da tutte le parti
così che ti sembrano alberghi sul mare.
A volte è soltanto il rispetto di sé
di gambe conciate e di piedi stancati.
A volte se parlano cade un aereo
un limite imposto alle mani dell’uomo;
in altre ti fanno preghiera d’amarle
e tutti i rumori diventano uno:
la bocca sua bella che ride e che gode.

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SALVIAMO I BAMBINI

Qui, sopra la collina lunare, siamo vivi
ed esaliamo venti respiri ad armi pari;
desideriamo farvi sapere che la morte
è un candelabro sporco la notte del blackout
un osso di gallina piantato nel deserto
e la poesia un fucile per fanti.
Qui, in pianura, l’odore di città è cento erbe
i treni lupi, e le tabaccherie fanno a turno a stare chiuse
domenica e festivi compresi.
C’è la banda, il prete col pinnacolo rosso
e funerali. Nell’aria il fumo denso dei diesel
grano a sciami, e uccelli dal candore irrisolto.
E ancora noi
mischiati a tanto darsi da fare
qui, Shangai, Bombay, Palermo ed ogni città.
Qui siamo noi, bambini proletari con stecchi di bambù
giochiamo a nascondino, a dividerci il Brunei.
Qui nelle intercapedini d’armadi finto tek
sostiamo sui binari come gli uccelli blu
guardando a quei fanali d’argento in cecità
d’ingenuità perduta e costanza a dire NO.
Qui tra i camminatoi delle fabbriche, nel Bronx
vicino all’Esselunga della periferia;
col moccio sui polsini da zingari, e il grisù
dei nonni da mandare a memoria.
Siamo noi
fantasmi predicati senza lenzuola, noi
che non abbiamo niente da perdere.
Noi, stop.

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