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Archive for giugno 2017

IL TEMPO

Il tempo è un vandalo
martello e cattiveria;
indugia sui ginocchi come se avesse mille
che dico, centomila suoi anni e pochi giorni.
Ti scaraventa a terra come l’amico dolce
d’infanzia dietro i prati di casa, poi fa pace
disegna sulle palpebre libellule e fastidi
prepara la tua terra per semi d’oleandro
per grano saraceno e l’avena più sottile.
Il tempo c’ha il motore truccato, a tratti frena
in altri fa la pietra che rotola, ti ammazza
mettendoti davanti una donna che c’ha voglia.
A volte fa dei buchi nel muro per i quadri
a volte i quadri stessi e li espone al pregiudizio.
Il tempo è un lazzarone con venti mani in tasca
ti ruba le monete del latte, ride forte
del tuo fastidio al vino mediocre, al cibo sfuso
ti fa venir la gobba dove c’avevi il meglio
il libro delle dolci carezze, quelle spalle
che hanno portato i figli a vedere i fuochi al lago.
Ma il tempo perde sempre
se dormo sul tuo seno, come tra i fiori nuovi di prato
e lasci fare.

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SUMMERTIME BLUES

C’è giù il baccano degli altri, dei vicini.
Le borse sistemate con cura, il sole a picco.
C’è giù quello che sembra più giovane
il tal greco, ma viene dalla Puglia il furbetto
è già in pensione, per via che ha lavorato prestissimo.
La mora, con i suoi occhiali un poco ottocento
il gatto in gabbia, il portapacchi con i tiranti.
Tutti al mare, a farsi delle ore sull’autostrada A7.
Tutti alla fine del mondo, noi si resta
con un ventaglio della enigmistica, un lenzuolo
un po’ di riso e un tonno da aprire.
E le tue gambe
che a volte sono bisce di fosso, ed altre erba.
Il ventre snocciolato e un po’ molle di quei pigri
i libri dei poeti fasulli, e quelli grandi
quelli da un colpo secco alla testa, o una scopata.
Si resta a masticare basilico e mentine
ad ascoltare i treni del sabato, gli aerei
che planano a Malpensa e ripartono qui in casa.
Si resta e si prolunga l’amore, si fa finta
di farlo delle ore con stesso impegno e palle.
Si guarda un po’ la tele con tutte le vaccate
un disco americano che ci capiamo niente;
si resta col ghiacciolo da industria appiccicoso
la lingua dal sapore di fica, una formica
che cerca un po’ di zucchero a velo in questa chiesa.
Si resta col binocolo azzurro dei pensieri
dietro le tende aperte del cielo, forse a un dio
quello dei testimoni di Geova, sudati
incravattati e il dito veloce. Vi ringrazio
ma ancora devo credere in me, poi si vedrà.

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L’ORIGINE DEL MONDO

Ma tutta sta poesia cartina molle
tabacco da due soldi ed un cacio, tutta fusa
e languidi pensieri di giuggiole e di viole.
Tutta sta smania di fare di parole
tovaglie bianco giglio e infinite zolfatare
mazzi di rose in doppia vetrina, sta poesia
che sempre ai ferri corti ci appare, un poco ossario
un poco debitrice dei salici di mezzo.
Questa poesia di petali al viale, quasi marci
dopo la gloria di un giorno o due
poesia del tutto, del tanto aver mangiato sì bene
che ti scordi, la pancia vuota al resto del mondo.
Sta poesia
dei ciechi allo spettacolo equestre del tuo mare
dei sordi all’aria in gole profonde.
Sta poesia, dai tratti carismatici sciatti, niente segni
banale come un ramo di pesco, di nocciolo;
poesia del faccio dopo la spesa, di te curva
la zappa a poca terra ingrassata, cena e a letto.
Questa poesia dei mezzi lampioni di Via Dante
di figli con le chiavi perdute e del decoro
col quale ci ha abbellito il Comune i suoi giardini.
Questa poesia di fragole mosce e sesso duro
sprecato in due lezioni di vuoto, d’orgia al buio
lavato come un bel monumento al mio passato
al tuo di cercatrice di funghi e di lumache.
Al tuo sottana larga con niente sotto, al nostro
dissolto come il ghiaccio d’Islanda, come il cielo
venuto via dal giorno col moccio dei ragazzi.
Questa poesia che vive un istante e dopo muore
nell’angolo più asciutto di questa bocca amara.
Poesia dell’euro al finto parcheggio, al malincuore
poesia delle mie gambe che figliano ciliege
e nespole dal gusto di fico; e poi le tue
venute grandi nei lavatoi, nei fiumi freddi
di questo perfettino paese.
Questa smania
di edulcorarti il fatto sublime, un po’ animale
che intorno alla tua fica si vola, sempre idioti
col cuore alimentato a gasolio, ad ore sveglie
a bocca aperta al solo pensiero.
Non è vita?
il resto è pietra inerte, passaggio sole luna
inutile nomea delle cose, della gente.

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LE RONDINI RITORNANO A VOLTE

Se non c’è neanche una nuvola, è un cagnaccio
a rinfoltire il cielo legnoso di Milano.
L’assenza è presupposto impossibile qua dentro
tra le officine robotizzate, il mimetismo
con cui le piante grasse scoraggiano le api.
Nella totale efficienza tutto è un mostro
un nervo da scoprire e spezzare
un viaggio a vuoto, per le periferie ormai insozzate.
Tutto quadra
fuorché la privazione del senso, la mancanza
l’amica fatta fuori perché così va il mondo.
Le rondini ritornano a volte, ma non sanno
dei mille e più cannoni rivolti alla bellezza.
Fanno dei giri come di danza, tutte insieme
così che come un velo somigliano, un foulard
perduto da una donna invisibile.
Ti penso.

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FOTOGRAMMI

Mi pare di sentire il rumore della carta
di quelle caramelle col miele, da bambino;
quando per strada rincorro le ragazze
che passano veloci piegate sulle bici.
E allora rido fino a domani
in tutto il corpo
e come un gran serraglio mi schiudo al sentimento.
Fiorisco come il pesco sul retro all’oratorio
come la spuma a Cadice in acqua, come Agnese
che a piedi nudi assaggia il suo fresco
qui in cucina.

Quel timido sudore che mi viene
non è l’amplesso giovane di ieri qui al paese;
ma l’ostracismo delle nottate, consumate
a cogliere falene di luce con le mani.
Come a voler risorgere
da me, vizioso antico
che dedicai la vita alla ruota di sottane
a quel delirio uccelli di lago che veniva
se nudi ci premeva sospingerci, l’un l’altra
come su un’altalena
tra infanzia e fine vita.

La timidezza di un bacio ti fa luce
su queste scale mozze di luna;
non sai bene, cosa l’offerta debba tacere
e allora in mare, allarghi le tue reti
come fa il tessitore
il ragno nella stiva di casa.
Ora mi tieni, come una pietra bianca di fiume
dolce acqua.
Ora mi spargi seme allo zenit
ti allontani, come fa il merlo dopo tre salti
chiami il nome, capace di riempirti la bocca
chiudi gli occhi.

Come la mano a mio padre nel mercato
m’aggrappo ai pochi attimi che nacquero in me il riso
la pudica promessa d’avere quell’abisso
chiamato donna prima del sonno, del partire
verso gli appuntamenti di Dio.
Ti trovo bene
ricchissima e scordata come un buon libro in treno
come l’ombrello in Posta o da Carmine il droghiere.
Non hai perduto il vizio di regalarmi i seni
tirati su da un secchio nel pozzo;
e quel tuo modo
d’abbandonare il piatto con dentro qualche brisa.
Chissà, forse un uccello stanotte può arrivare.

C’era uno col flauto e una chitarra
poggiata quando usciva per bere.
E io toccavo
vibravo l’aria dentro su tutte le altre voci.
Lui mi lasciava fare, perché ero delicato.
Così la mano tua ho sfiorato mille volte
lo stesso sposalizio di musica e stupore.

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