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Archive for settembre 2017

LUMINOSA

Non te l’ho detto mai
ma somigli ai miei canali.
Alle scritte sopra l’acqua che invitano le capre
i musi bene attenti nel bere; i miei respiri
tra la corrente azzurra che lecca sopra i fianchi
e i lombi un tempo giovani e belli.
Non l’ho detto, non te l’ho detto mai
che somigli alle mie mele.
Selvatiche nell’orto d’infanzia
piccoline; tra il rosso labbra piene d’amore
e il giallo terra.
Non te l’ho detto mai che sei tavolata estiva
tovaglia bianca piena di brise
e poi di uccelli
che spingono la luce fino all’estremo nord.
Non te l’ho detto mai che sei bosco di nocciole
un numero d’inverno in rubrica, il fontanile
che a volte dentro gli occhi pareva di toccare.
Non te l’ho detto mai
che sei nuda di peccati.
Fino alla ascelle e giù, sopra i seni
sull’addome, e il ricciolo precoce
cucito in ombra pura.
Che mai io t’ho veduta in quei luoghi aperti a Dio
eppure di magnolia ti so, di spago e seta
la seta che fa ricca la fabbrica e la donna
quando giù in piazza passa ad accendere i cantoni
veloce come fiamma, più esperta
luminosa.

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Come un’eclisse, un punto di ritorno
o quello G nascosto ad Atlantide.
Poi arriva. E non importa l’età o essere padre
politico o imprudente, malvagio.
Ecco che arriva, la verità di critica e orgoglio.
Scrivi il giusto, ma non ti basta il mezzo
ed il fine è carta straccia.
Finiamoli i diari da adolescenti rotti
il miele delle api alle orecchie, quei pruriti
che a questa età diventano oro. Fuori tutto!
è roba da anarcoidi sentimentali scemi
fare poesie nel mondo quando ce n’è milioni
di ottime e di opere d’arte.
Meglio un chiodo, una scopa, una ramazza
un attrezzo da officina.
Aggiustare, costruire, fare del bene agli altri.
E allora prosciughiamo gli stagni di Narciso
c’è troppa sofferenza importante per lavare
la propria col moschetto del cazzo.
Lei non torna, e lui c’ha un’altra da un quarto d’ora
mamma è vecchia, bisogna anche legarla nel letto.
Giù al lavoro, è tutto un magna magna di becchi e di ruffiani.
Per mare vanno i poveri cristi non le dive
gli yacht hanno pagato le tasse in qualche altrove
ad un robot che calcola male: tu pezzente
la piccola fettina di mondo strafogata.
Facciamola finita col maschio che ti monta
a volte sono stanco recluso e voglio niente
neanche le foglie in dodici ottavi, niente figli
né musica sublime per dimenarmi il culo.
A volte vorrei solo la terra ai piedi nudi
un’arancia da spellare e le bucce sulla stufa.
Una gatta sulle gambe felice esser viva.
Tu che mi dici – il tempo è volato a stare insieme
con gli alti e bassi. Ma dai che ti bacio.
Solo questo.

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TRENTACINQUE

Nel posto a me vicino, qui sul treno
l’amica mi racconta dell’urna del marito;
la polvere che tanto voleva liberata
nei boschi di un paese distante, ma non troppo.
L’ho conosciuto in tempi di grassa
gli anni ottanta.
Venivo da un amore finito, ed uno nuovo
quello che ancora mi mette delle scarpe
per correre a Milano a ferirmi sui ginocchi.
Lo sento farfugliare nel sonno, certe notti
un misto di futuro negato, comprensione
la riscoperta a tratti del nudo. E le mie mani
che ancora van cercando dispetti.
Dormo poco
ultimamente entrambi ci addebitiamo troppo
preoccupazioni e voglia di vivere a fatica.
E allora è un po’ così, che m’è venuta in mente
la cenere di questa devota, il suo sorriso
tanto più ricco quanto son stati gli anni insieme
nessuna privazione del gusto dell’amore.
Così, sti trentacinque balordi li abbiam fatti
magari non sarà la migliore, ma è poesia
perché non me l’ha imposta nessuno.
E di baciarti, ho ancora voglia come un ragazzo.
Questo è un fatto.

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ANGELA

Non c’erano cavalli, armature, gonfaloni.
Snellezza di preghiera se l’è portata via
come una voce in fondo alla strada
al lastricato, nel posto del lampione che zitta a fasi alterne.
Dove c’è l’Osteria dei baluba e i perdi tempo
dove c’è l’Osteria dei poeti dialettali;
il canto cristallino e potente di Angelina
di Paolo, e di mio padre rimasto.
Ho le parole,
le uniche che posso portare, cementate
come la Lombardia di nord ovest; ai paesi
che devono ai ragazzi di un tempo l’esser vivi
spettacolari in certe serate, che dormire
si fa peccato grave perché bisogna amare.
Fino a graffiarsi i polsi e la testa, nei pensieri
fino a tirare fuori le storie dalla terra
del vino più sacrilego e caro: quello offerto
da chi è rimasto qui ad ascoltare, e fa un applauso
l’elogio alla grandezza di quanto si è vissuti
con onestà e lavoro durissimo.
“Le rose, le rose rosse no, non le voglio veder
non le voglio veder”.

In memoria di mia zia Angela, scomparsa qualche giorno fa.

Non c’era matrimonio, funzione, festa o altro pretesto
in cui Angela, Paolo e mio padre Angelo
non cantassero romanze e canzoni popolari, per tutti.
Insieme o singolarmente.
Ognuno il proprio timbro, la propria impostazione
il proprio cuore.

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