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Archive for novembre 2017

COME UNA COSA VIVA

Talvolta
chino all’ombra di un posto in fondo al treno
ricordo che son stato ragazzo.
E allora rido, da solo come certi balordi
qui, al paese, che vengono additati da matti.
Dolce affiora
in me il ritratto d’ogni poeta, innamorato
del semplice profilo che incendia una vicina
di posto mentre sfoglia il suo libro.
Od accarezza, sul vetro la misura degli alberi.
Riposo, ripenso le piastrelle coi fiori a prima casa
la tua verginità persa in piccoli dolori.
E il mio tremore. Per quella nudità
già più grande del destino,
del dono che non merita l’uomo, a volte inetto
non buono di competere in grazia.
Ed ecco, accetto
lascio al futuro un fragile ramo
un verde incontro, di terra e mani caritatevoli.
Una voce, e cento meraviglie animali
la passione, la storia che sta dentro le pietre;
questa mia.

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E voglio ringraziare chi ha fatto le stenelle
il nome tuo a sei lettere, il prato
queste foglie.
L’odore della terra che apre le sue gambe
quando per mesi non piove e pare danno
il riversarsi forte nel prenderla.
Ringrazio
ché posso dire al sole – ti vedo vecchio amico
c’hai il muso dei malati a novembre, ma va bene
ho qui venti spettacoli pronti per guarire;
la donna del creato in libidine reale.
La spiritualità del garzone giù a bottega
quando ripone l’etto di cotto sulla carta
come farebbe, certo, con lei che non lo guarda.
Volevo ringraziare l’orchestra delle piante
dirigerla è un affare per pochi, forse uno;
o forse sanno fare da sole, e tu sei ricco
di piccole monete di luce, d’erba, d’acqua.
Sei ricco dei chilometri avanti
e verso il cielo.
Sei ricco quando al soglio di casa lei si siede
ti dice come fare il lavoro perché renda
e intanto c’ha una foto e la guarda
gli occhi lustri.
E’ lei vent’anni fa, e stava bene
l’ami ancora.

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MESSAGGIO IN BOTTIGLIA

Sappiate che ho sconvolto un oceano di sottane
appese al filo in qualche quartiere.
Ed ero un lupo, quando la luna ancora era vergine.
Ho studiato
la direzione esatta dei venti, i pesci gatto
il nome che ci univa e non era parentela.
Sappiate che anche io ho messo l’ombra in qualche valle
e avuto vista come di aquila, rapace
in queste unghie sulla sua schiena. Ho scritto il meglio
con l’acqua della brina e fatto di conto
per mia madre, a fine mese già dal droghiere.
Sembra strano
ma ho avuto il cuore debole e forte nei sospiri
gite scolastiche da metterci poi bocca
a una compagna dietro una siepe.
Melograno, per qualche tempo questo era il simbolo
più rosso, del sesso quando ha smania d’amore
il corpo luce, nel suo volere solo giustizia.
Questo è il viaggio
affondo la mia coda maestosa ora che è sera.
Io sono Moby Dick, l’innocente
vado a prua.

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BILANCIO CONSOLIDATO

Ho scritto per metà degli amori
l’altra ai morti.
La terza mia metà per il grido Novecento
i ratti sul soffitto in campagna
Luna e vetri.
La quarta mia metà per le donne nel cortile
per le mutande stese dopo la candeggina
per i vagiti dei tanti figli.
Altre metà
le ho scritte a un metronotte incallito
sordo e duro, meridionale più del suo accento.
Altri frammenti, li ho sparsi sulla strada di casa
Pollicino, o semplice ragazzo che ha preso due inculate
dal primo amore e dal principale.
Altre frattaglie, le ho messe nella carta da zucchero
a bottega; per via che dopo i primi cinquanta
il resto è gratis.
Alcuni li ho nascosti nei pantaloni nuovi
attento alla cerniera sul fatto dei coglioni.
Qualcuno l’ho lavato coi denti, sotto ascelle
in mattinate fredde che fuori era un porcile.
E tanti poi li ho messi in prigione, malandrini.
Parlavano di voglie, di desideri osceni
per donne che nemmeno il suo nome.
Ho confessato, e senza alcun rimorso
ho bruciato un sacco d’anni.

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