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Archive for gennaio 2019

I NUMERI SUI POLSI

Siamo chiamati a grandi faccende
a far giustizia
a tacitare, vino e coperte, la vergogna
d’aver bevuto il male sputandolo sui fiori.
Siamo chiamati scopa alla mano a rassettare
a fare via la cenere bianca dei bambini;
a raccontare ai vecchi che son vissuti bene
dentro il terrore, pena pazzia.
Siamo chiamati, ognuno col suo nome spettrale
e l’altra guancia
contabili del piscio sul muro e del morire
capendo niente in mezzo alla neve
mano a mano, a madri di qualcuno
e fratelli di frontiera.
Siamo chiamati al sangue di terra
a ribaltare, sto mondo malandrino del capitale vano;
chi con la penna, chi con le idee.
Nulla è perduto
se annuso i tuoi capelli rimasti giù dal cielo.

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IN ME DIMORA IL CERVO ALLA LUNA

Del naufragio io vivo, e farmaciste
con le mollette d’osso ai capelli
e i reggicalze.
Di donne il cui tagliere degli occhi fa erba salvia
e cipria detenuta tra gli inguini.
Io vivo
ho il fiato menta, un fiore qui all’occhiello del naso
sogni pochi, più semplici che ho mica studiato.
E di cantine, anfratti bui e pericoli a vista.
E tenerezze, saluti come fossero perle
in quel di maggio, che è il collo delle donne scoperto.
Di presagi, tabaccherie fallite e trapunte da sciupare.
Caviglie più leziose dell’arte e treni d’ansia
di solchi immacolati tra natiche divine.
Io vivo come il colle strinato, nudo e verde
nascosto all’ira e tutto bagnato, al desiderio
al siero della pia consunzione. Ho peli, e strade
fossette di fortuna e uccelli sulla neve.
In me dimora il cervo alla luna, il lupo argento
il sonno d’animali in inverno
e primavera.

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QUANDO CADIAMO NEL SONNO

Quando cadiamo nel sonno è sempre ieri
il graffio sul ginocchio, la tua benedizione.
Quel farci via dal viso e i capelli tutta l’erba
leccare le ferite e poi sputare il male.
Nascondere poi, insieme, i rammendi già inventati
sotto un sorriso nuovo e la voglia a proseguire.
Quando cadiamo insieme nel sonno
sotto è un fiume, toccato con i piedi
prima del gran finale; del salto gambe unite
e naso chiuso in mano.
Il brivido provato e scordato in un istante
il sole appiccicato sul mento appena usciti.
E tutta l’aria nuova da bere e rigettare
sui fiori in fuga dai giardinieri.
Là noi andiamo
quando cadiamo nel sonno, niente pianto
la bici sulla ghiaia, le scarpe rotte altrove.
Il lembo di sottana di Madre Terra preso
e poi di nuovo in piedi
mandando giù l’errore.

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QUESTO MIO CORPO TUO

Questo mio corpo di semola e germogli
di luce assidua e figliata, mela verde.
Questo mio corpo anello di bestia, catenaccio
così che puoi trovarlo, perduto il senso a cose
la strada per la resurrezione.
Corpo antico
di creta fatto su a brave mani, generoso
coi tuoi capitolati dell’arte;
corpo asceta, distratto nel ferirsi alle rose
vecchio il giusto
per quella esuberanza d’atletica sfiorita.
La netta interpunzione tra il correre ragazzo
e la maturità di una prugna in cima al ramo.
Questo mio corpo tuo che m’allegri
che seduci, che mi carezzi come morissi.
Come il tempo, il tempo che è per sempre
riempito con il dire, il fare e il contemplare
ciò che respira o è inerte
materia dalla quale veniamo
e torneremo.

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