Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for aprile 2020

MARE DOLCE

Sono dovuto arrivare a sessant’anni
per tingermi di pioggia le mani e stare allegro;
perché a vederci dentro l’Australia sono buono
adesso, più di quando bambino avevo i libri
tenuti con il cellophane molle alla credenza.
Con gli anni la mia barca negli occhi ha preso il largo
intanto che mangiavo teorie degli scaleni
grammatica e due guerre finite. Venti vele
adesso ho al posto dei remi stanchi, venti uccelli
poggiati sulla poppa che bevono del sale.
Dovevo proprio avere l’età dei quasi vecchi
per assaggiarti senza toccare, e per spiare
da questa serratura mai chiusa, come donna
hai sempre ai piedi il mare più dolce, e mille pesci
che girano te intorno come le api al miele.

Read Full Post »

I FRATELLI CERVI

Ditemi, voi
se esiste un giusto fiore
che valga crudeltà di strapparlo alla sua terra
per porgerlo là dove c’è stata sepoltura
di uomini per mano di uomini finiti.
Ditelo al padre e alla madre là in cucina
che porgano le sette stoviglie a riposare
il vino dentro il fiasco a perire.
Dite ai cani, che nessun osso avranno stasera
ai campi arati, quattordici le mani perdute
e tanti i piedi.
Ditelo al prete che esiste vita eterna
dentro le bocche di mosche dei fratelli.
Al Dio che tutto vede e perdona
che oggi è festa, e lacrime minestra
si mangeranno insieme.

Read Full Post »

IL CIELO VEDUTO DA BAMBINI

Ci sono giorni più duri di ogni altro.
Giorni in cui tutta la faccia è lì che cade:
le guance intorno ai labbri, gli zigomi smussati.
E sembri avere il peso del grano nel Consorzio
hai tu presente i sacchi ricolmi? tutti in fila?
Nemmeno se sorridi ti viene niente in volo.
Ma gli occhi stanno a posto, si, certo, come fanno?
Son diecimila anni che vivono in caverna
col fuoco dentro fino ai budelli, prima al cuore
perché tu innamorata c’hai i segni delle rose.
Ci sono giorni strani e vorresti fosse notte
di quelle come pietra sul petto, e sulle gambe;
di quelle che dormire è un atlante con il mare
le verdi terre incolte fatte apposta per sognare.
Ci sono giorni da sottosopra, e pavimenti
che sono come il cielo veduto da bambini.
Le sedie sopra il tavolo son da tenere ferme
sia mai che poi si credano rondini.
Noi si.

Read Full Post »

SENTO CRESCERE L’ERBA

Eppure, mi manca il coro di messa, un ubriaco.
Il flit della vicina che scaccia via le mosche.
Mi manca questa ingenua vacanza dalla vita
quella che picchia giù duro e miete sassi
quella che prima o poi muori, e buonasera.
Mi manca la Filanda con i suoi puzzi intorno
l’acqua di cera del lago ai primi soli;
distendersi alle pietre per diventare scuri
e fare via anche i segni di certe canottiere
stampate sulla pelle come dei peli al pube.
Mi manca il cane matto ai calcagni del postino
la sua promessa mezza feroce e mezza finta;
e certe trasparenze di sottovesti al filo
per asciugare i conti col figlio del droghiere
col senso del peccato di sabato, poi basta.
Mi manca l’oratorio col prete nigeriano
il suo colore d’Africa che dava sul curioso.
Mi mancano le corse e i racconti del tramvai
di quando le rotaie venivano fin qui;
e per andare al Duomo si salutava un po’
come partire in guerra o in miniera. Manca, si
un po’ di tutto questo e qualcosa che non so
che gira nella pancia e mica viene su.
Sarà il magone per tanti morti, chi lo sa?
andare per le strade era facile, ora più.

Read Full Post »

LUNA PIENA

Dimmi il verso
che fai quando la luna è più tonda;
quale amico, nel mondo che respira animale
ti somiglia.
Dirò della stenella che tocca i fondi ignoti
dell’albatro e dell’aquila ai picchi.
Certo a loro
io m’ispirai vedendoti nuda.
E ancora m’alzo
in volo a quasi un metro da terra
quando piena, ti sovrapponi all’occhio del cielo
bianca, pura.

Read Full Post »

SURPLACE

Già silenziose di sé, queste mie terre
sublimano il concetto di Dio
ora che chiuso, è l’ingranaggio delle serrande
e solo steli, turbano il canto notturno delle spose.
Il corpo ha le ragioni che vuole, così il campo
gli uccelli uniti e gli alberi proni.
Il mondo suona, un carillon scordato da tanto
è ballerina, su un piede mostra tutta la grazia
a noi, storditi. Noi smemorati del gusto naturale
di tendere l’orecchio alle stelle, o al passo breve
di un riccio nel giardino arredato a fiori viola.
Si prende tutto il cordolo l’edera, tu il mio cuore
l’abbozzo delle labbra che dicono migliore
sto tempo di paura e bellezza, fuse insieme.

Read Full Post »

UMIDO FIORE

L’umido fiore che t’intravedo, nuda
è come il collo d’anatra che immerge nello stagno
la sua autorevolezza di nobiltà e di grazia
la sua bugia degli anni più verdi.
Arbusto e grano, sovviene sui miei palmi
se coricata soffri, il brivido feroce dell’essere indifesa.
Il corpo mio che giace su te ti è forse scusa
l’ombretta di calore di un buon bicchiere ancora;
o forse quel sentore di rantolo animale, tu vuoi
così che il coccio d’amore suoni un diesis
in questa selva fatta a minori, accordi strani
tali agli uccelli che fuggono impauriti
per via di un temporale improvviso. Resta ancora
per altri mille anni alla vista, mia signora.
La nudità che mostra i tuoi segni è un pianto dolce
la tavola di stelle che guida verso terra
questo mio guscio di noce a te devoto.

Read Full Post »

CHIAMATA CONTINENTALE

Quanto mi pena ora porgere il cucchiaio
quello di peso importante, quello inciso
le belle e conservate stoviglie di tue nozze.
Ricolmo di minestra di riso, poche spezie
un suggere distratto di labbra a far rumore
il soffio sulla cenere prima, un po’ piegati.
Come mi pena quest’acqua con il vino
nel calice lavato degli anni, e il pane duro
da farci poi una presa finale, un degno pasto
rimasto nel suo semplice rito. Eucarestia.
Lo stesso sangue di contadino, stessa carne
soltanto le giornate che dice bene il campo
il conto sul libretto postale.
Celebriamo, ognuno nella casa raccolto
questa speme, parole poche e sguardi fugaci.
Abbaia un cane, a una lettiga tutta veloce
poi s’allenta, ritorna alla manciata di sassi
a nuove foglie.
Già fanno l’orlo in pizzo alle piante
è la stagione.

Read Full Post »

BELLEZZA VERONESE

Ripone con minuzia cenacoli d’inverno
mia madre, quando spuntano rose
e dà rifugio
al debole commiato di una coperta in meno.
Con le sue mani cipria dei santi, la vaghezza
con cui ricorda qualche canzone; ora che fuori
si piega come fece mia figlia a Villa D’Este.
La fila delle venti formiche, un tozzo in pane
dapprima sminuzzato e poi tratto in qualche dove.
Si piega come fanno quei vecchi
ci vuol tempo, ardire che la schiena ritorni su d’incanto
a prendersi gli zufoli d’aria di un bel marzo
il mese in cui svelò me nel mondo.
Aggiunge cose, forse dei semi in tempo a venire
come arredo, di un verde tra il paesano e il sambuco.
Poi dilegua
ritorna alle faccende di casa, alla finestra
nel luogo in cui la luna la osserva, e un po’ la indora.

Read Full Post »