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Archive for marzo 2021

CREATURA

Come veloce l’aringa sfugge al palmo

così tutti i miei anni sono trascorsi in luce.

Un guizzo con un lascito furbo, una scia d’acqua

l’afrore che vien su alle narici del salmastro

quando al pontile le dichiarasti amore

lingua straniera tradotta naturale.

Ancora immerso in questo dipinto, sono tale

al lucido stupore del bimbo nell’attesa:

il piccolo candito comprato là alla festa

si farà dolce a lingua e palato questa sera.

Poiché l’incontro al bello d’averti sempre dura

anche se poi come pesce tu, creatura

dilegui il corpo snello nei prati del corallo.

Ed io rimando acceso come quei fari antichi

confuso tra le stelle, venute basse a incanto.

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Come sei nuda amore

nel tuo dolore prossimo e nudo.

Come strilla

la pelle dell’inverno nel suo tremore insano.

Da quando ho piantumato le rose

un buio d’api, si è fatto il mio giardino

aspettando nasca il sole.

La notte ha una durata inconsueta

sei in altrove, col becco dell’infanzia

poggiato a reti e ghiaia.

Sei nel veleno prossimo fiorito in un bicchiere

nell’ozio di quei campi in maggese.

Ah, mio amore

come sei nuda adesso sul collo

sei Antonietta, che porge il capo nudo alla lama

e quando ridi, negli occhi viene un albero triste

un’acqua cheta,

profonda quanto un palmo di mano.

Ah, mio amore

come son nudo anche io senza i tuoi baci

le gelosie feconde e le unghie nella schiena.

Come più dura si fa la pace, ora

nei corpi abituati alla corsa. Ah, mio amore

forse rimedio più acuto è consolare

alleggerire il cuore dai sassi del dolore;

spiegare queste ali bambine ancora buone

e far come le rondini, venute giù per bere.

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Voglio una luce più obliqua questa sera

sul tuo faccino pepe dei campi, sulla bocca

che cerchi di aggiustare dai tuoi sorrisi amari.

Una di quelle luci che fanno un po’ paese:

modesta caratura di camminate ai fossi

le vie già mezze vuote prima che venga inverno.

La luce sulle mele riflessa, sopra i vetri

nettati il pomeriggio per prendere la luna.

E voglio il carpentiere dell’ombra sui tuoi seni

là dove goccia su goccia cade estate

e muta l’angioletto di pietra in un uccello.

Voglio una luce di lampada a petrolio

un lume per le scale del fieno, per le gambe

tornite con la roncola a salve di stagioni

più bianche della storia di Russia. Si, una luce

che guidi questi calli bastardi alle tue grazie

sul limite sbavato di quel grembiule azzurro

che metti per pulire la casa dai peccati.

Voglio una luce rospo e poi principe, bizzarra

come una mezzanotte e una scarpa di cristallo;

la favola di prenderci a letto il sentimento

mentre sul muro s’ode un pallone…toc…tatoc…

il mio ragazzo gioca con l’acqua delle rose.

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SULLA PORTA

Prima del passo c’è un verbo di pianura

dove la pioggia minaccia sugli esausti

e il cielo è calibrato di aironi, unica guida

nel regno degli dei mai veduti. Prima ancora

della mia fronte ampia paterna c’è stupore

ragione d’esser stato il tuo amore per un giorno.

C’è l’onda senza mare che tutto colma il dire

e questo bel tacere che fa di miele il tempo

la gazza e il niente foglie a febbraio.

C’è il tuo corpo

il sasso levigato dal fiume delle ore

quell’armonia che fa di te, donna, il mio creatore.

Prima d’uscire c’è l’aria luminosa

la consapevolezza di sé, fiore dell’aia

la fretta dei gerani nell’umido di terra.

Ci sono queste braccia che amo sollevare

come prendessi del sole il suo frumento

o della gioventù il filo teso, ora che sciama.

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