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Archive for gennaio 2022

MEDITERRANEO

Con la parola “giovane”

ho raccolto questa menta

e sublimato forte per tutte le narici.

Deciso il suo sentore si è sparso tra le dita

e come il rosso erotico fiore mi son dato

alla tribolazione del perdersi nel cuore.

Adesso sono il mare di notte,

vado e vengo,

risibile rumore sui sassi, sulla rena.

Regalo la mia bocca di polline, la spargo

ché piccoli milioni di me facciano amore

ognuno con chi ho amato

ognuno che ho chiamato.

Adesso sono il mare di giorno

inghiotto lune, e seme di conchiglia

carcasse morte, sale.

Adesso sono culla dei popoli migranti

povera gente senza confine;

adesso piango, la mia elasticità fatta polvere

marana.

Adesso sono il mare passato

un filo teso, qui nel cortile della mia infanzia:

braghe, maglie, l’odore del lavoro

che ha ucciso il padre mio.

L’odore delle donne dentro le sartorie

l’odore della prima maestra, di quel prete

che alzando gli occhi a Dio tutto libera

e perdona.

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Ci sono stato più volte sottoterra:

è quando immergo l’orecchio nel tuo ventre.

Quando scintilla nel cielo luna nuova

e tutta te mi appari come la neve in cima.

Dicono in anima d’alberi si nasce

posati come un seme in un sacco in iuta e lino;

le spoglie minerali stipate in archibugio

miscela in sole equestre

e tempo propulsore.

Dev’essere così che sei nata, perché aperta

il pioppo ti somiglia, e anche il cedro.

Stanno al vento

come figlioli al lembo dell’umile grembiule

di quella che Natura designa come madre

e guida, e Dio scappato qui in terra.

Dormi al fiume,

ti vedo quasi tutte le notti ritornare,

e bere luce autoctona da stelle di paese.

I frutti delicati che hai sono bagnati

ed io, come un uccello migrato, mi ristoro.

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Io voglio scrivere in te, di te, per te.

Ché chiaro

sia l’incontro dell’occhio col creato

come una mattinata sul monte

come il gioco, del legno e della ruota

che taglia via il cortile.

Io voglio che mia madre capisca la parola

che ognuno che lavora ne abbia grande cura;

e voglio che la semplice lingua s’erga a Dio

più nobile nel suo sentimento

e nell’azione.

Non c’è, nella poesia, legge piccola o gigante

che debba separare intelletto e grazia pura

non nego l’arabesco e la stilla del pittore

ma sporca d’erba e terra per grano sia al contempo;

ognuno cerchi in sé quel mistero d’esser vivo

in questo viaggio in stiva, o sul ponte dov’è vento.

Io dal mio canto scrivo il fanciullo

perché l’amo.

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ASPETTA IL GIORNO

Non la intuisci la forza d’abbandono?

Il pesco nell’inverno ha la lingua morsicata

le unghie dissacrate, affondate nella terra.

Aspetta con pazienza come la madre il figlio;

aspetta che l’orario di scuola dia i suoi frutti

candele e alloro intorno alla testa.

Pare dorma, il sonno di Penelope bella

il canto Omero,

lontano da quei rivi di dolci ragazzine

che affondano col nudo del piede in primavera.

Il capo reclinato ha due occhi di smeraldo

il fiuto della volpe, la sobrietà dei campi:

adesso che anche l’erba s’inchioda

come Cristo, con le sue spine il venerdì santo.

Aspetta il giorno

dell’inguine e del vino, della maestosa bocca

aspetta come un passero il verme della terra

un sottotetto pieno di musica, e colore.

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SCRIPTA MANENT

Che aveva visto la lepre, spaventata

dai fari là nel campo

e ce lo raccontava.

Così sarà per questa poesia

una volta vecchi;

compagna di serate col fuoco bene acceso

racconto di una vita sparata a cento all’ora.

Ma mentre lo diciamo ci siamo tutti dentro

lo sento dalla schiena che m’ha creduto ancora

stamani nel raccogliere foglie.

E nel sapore

di certe ereditate credenze, dove il pane

durava per l’inverno come gli amori estivi.

Ci siamo bell’e dentro, con le pomate e il resto

la canfora sul petto per non tossire il cuore.

Ma un giorno, le poesie, ricorderanno tutto

le toccherai col bacio di guancia

un fatto, ancora.

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LIBELLULA

E ancora preferisci me al freddo di un bicchiere

la coppa delle mani, ciò che rimane intatto.

Memoria tra le pieghe dei palmi, il viso ovale

teneramente arreso alla semina dei fiori.

Il tempo ormai è passato della gelosa ira

libellula tu, verde, tumulto d’acqua spuma

giornate lunghe e acerbe che osammo praticare.

Ma ancora l’ammiraglia ci solca il mare fondo

hai pelle come vetro talvolta, io una perla

portata su col fiato sospeso. Cosa viva

che parla tra i tuoi seni, così, come mi appari.

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