Uccido, qualche volta, il mio vizio del futuro
un pezzo del sorriso che tanto hai predicato
e senza avere altro da dire
guardo indietro.
Ai tempi dell’asilo, del refettorio buio
finito poi che aveva, una suora senza velo
di riordinare piatti e pignatte.
Là io resto, e aspetto con la sciarpa mia madre
ultima sempre
ma non per questo meno graziosa.
Aspetto e grido
ché la mia voce aveva l’accento degli storni
la fiaccola portata dalle cicale, l’eco
l’impazzatura di quelle nottole finite
per sbaglio nelle stanze ormai vuote del riposo.
Aspetto l’Argentina dei padri,
il mio fumava, grattava la sua gola col bianco
e poi incantava
sopra un tappeto di muratori là venuti.
Lui e suo fratello amico, e quell’altro dita mozze
il fisarmonicista coi denti grattugiati.
Aspetto l’imprudenza delle vecchiette in chiesa
i loro traballanti foxtrot di varecchina:
quelle leccate lunghe e profonde tra le panche
quando il Signore va a coricarsi
e non c’è il prete, non c’è bisogno d’abiti a festa
o di breviari.
Aspetto la flottiglia di rondini, il carbone
e gli alberi di pesche di Mimmo fare i fiori.
Aspetto i sassi piccoli sulla mia tapparella
il segno di affacciarmi e d’andarmene con loro.
Aspetto che mia madre mi tiri il dente, piano
per piangerle tra i seni
soltanto per un poco.
Massimo 01 febbraio 2012