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Archive for giugno 2024

GIACINTO

Io vengo dal paese del bianco:

bianchi i muri, i tetti

e i bei pensieri che uccellano sul mare.

Vengo da un nervo di luce, Zeus

Nettuno; ricca semenza di pesce

e di conchiglia. E vengo

come l’ora più calda della donna

quando mi mostra sui palmi

il nudo primo, la lenta e maturata

preparazione al tatto, al gioco della bocca

che inventa le parole. Io vengo

dal paese del bianco, ho in me le api

le piccole ubriache d’infiorescenza e miele.

Vengo dal sacro conoscere e guarire;

profondo, più dell’occhio serrato

ho bianco il cuore.

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LE DONNE E LE ROSE

Le vedi erigersi, poi flettersi

e pesare. Sono le rose e le donne

le sorelle. Sono il bisogno del vento

sulla schiena: un poco d’acqua porpora

la cipria ineducata. Le vedi la mattina

che sa di pioggia, e ocra.

Sono le donne e le rose, il mais maturo

i piedi che divertono i prati

e le radici, che urtano di lato

inquietudini irrisolte.

Le vedi poi allungate nell’ombra

un punto luce, tra l’orbita terrestre

che compie il suo lavoro.

Le puoi sentire, a volte, cicale cantatrici

sulla cintura degli alberi e dell’uomo.

Sono le donne e le rose, le sorelle.

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IN OBBEDIENZA

In obbedienza alle leggi di natura

non scanso ilarità della pioggia,

non oppongo, che poca carta pelle

fragilità dell’uomo; cresciuto

con parole vaniglia, pane e sale.

Nel documento d’orecchio

è scritto il suono, dell’albero

l’uccello, dell’aria alle grondaie.

E in queste nari ho stalle e fienili

tulipani, le mani di mia madre

che mi strofina e lava; il duro

del sapone che viene come mare.

In obbedienza a bellezza

nudo gli occhi, c’è il mondo

in una spiga, la musica nell’erba.

C’è il segno del futuro

ai ragazzi nel canale, l’addio

di certe nuvole bucate dall’attesa.

Ho avuto questi doni

nel tempo che non pesa, e provo

gratitudine, gioia, solo amore.

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DISTANZE

Come un torrione forbito, un sacro uccello

la pietra millenaria che indica distanze.

C’è questa vecchia che si fa grande in cielo

sostituisce vene con scie di filamento;

sottrae alle nuvole la consistenza vana

la pelle rarefatta che include finimenti.

Alberga come un albero che ha perso

orario e sole, alzando il dito sovente

ai ragazzini, più tenerezza che monito.

È un gessetto, la formula del bene

spiegata alla lavagna. C’è questa vecchia

che culla la sua gatta, liquefazione degli occhi

bastimento. Ha una cambusa di setole e ricordi

salinità da treppiedi, i denti nulli.

Sorride come cento finestre di educande

come se un albatro fosse, a pelo mare.

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Villa Burba

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