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Archive for marzo 2013

RITRATTI 5 – 6 – 7

RITRATTO NUMERO CINQUE

Restare sul binario,
come un uccello morto.
Fin quando trema tutta la terra
e il sasso piange.

La neve, piena d’urla e parole
arriva in fretta
porta feroci spume dalle città straniere.

Restare sul binario,
come un fuscello rotto.
Un ramo
che divelto dal peso da la guancia
al ritmico di ferro;
a quel verme di frontiera
che scava l’aria e un solco nel buio.

Palpeggiare
il sangue sulle foglie d’inverno
addormentate.
Per scaturire in cuore un singulto di coscienza
una latrina fonda per l’odio.

E dirsi vuoti,
canestri per la palla che mai vorrai lanciare.

Trattandosi d’amore incompiuto
più ordinario
che tu stia a casa sotto due mani pasticcione
con i bambini attorno a sorreggerti la trama
di un bel vestito bianco
fiori d’arancio
e velo.

RITRATTO NUMERO SEI

Le dita
una tenaglia sul mozzicone acceso.
La mano dietro fine di schiena
sotto l’acqua, di un mezzo temporale di agosto.
Bigio il matto
quel cavaliere ossuto non buono per le donne,
non buono per i preti
e per i negozi in centro.
Col cesto delle uova saldato sul manubrio
i denti fine anni sessanta, tutti usciti
indenni dalla guerra in Corea.
Ma rovinati
dal suo trinciato forte e dalle carezze prese
da quattro manigoldi
per via di quel danaro, perduto in una gara di briscola
la sera
che l’Evelina entrò come una che c’ha voglia.
Con quei suoi seni duri a spaccare la camicia
e quella voce unta di povero, conciata.
Cercava suo marito per mille volte ancora
venuto a ubriacarsi dopo il lavoro.
Bella, come soltanto chi l’ha toccata
lo può dire.

RITRATTO NUMERO SETTE

Amava avere il monte che gli ferisse gli occhi
qualcosa che fermasse la ferrovia del cielo.
E gli dicesse
– Là tira il sasso
può fermare, la pancia della terra
questa tua irrequietezza.

E gli alberi, poi amava
quelli su un piede solo.
Sembravano le donne alla fonte la mattina
che battono lenzuola e mutande.
Amava il suono
dell’acqua uscita come gli uccelli negli spari;
quando qualcuno a piedi più uniti la prendeva
fino a toccarla nelle caviglie
fino in fondo. Dove mai dorme l’oro
di quei perduti anelli
di tutti i suoi amori passati.

E ancora piange
questa tragedia fatta pianura
questo taglio, di strade e fumiganti tombini
perché ha ucciso
in lui il ragazzo, e tutte le perle che pescava.

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RITRATTI 2 – 3 – 4

RITRATTO NUMERO DUE

Come le gabbianelle,
smagrite dalle ore,
dentro i più aperti cieli essiccati.
Stesa al porto
le gambe nude in cerca del primo sole
chiuse.
Le calze su una pietra di lato,
vele morte.
Ti prendi i fischi e mille sospetti
pare quasi, ti tenga il vento
appesa alle specula del mare.
Come si lascia a volte cadere lei, la stanca
nel vortice che ha mani invisibili, aggraziate.
Così che per miracolo
pare scompaia il peso,
e l’apertura è come il risorgere di un Cristo
purificato e chiuse ferite.
Darti nome
avrebbe il senso delle mie scarpe sporche in chiesa;
del dito nella tela che, ancora fresca
esplode. Nella primizia d’arte
ch’è già tormento
e fine.

RITRATTO NUMERO TRE

L’onnipotenza è presto spiegata
dice il vecchio.
È nella gemma che tu tormenti in mano
nel sibilo dell’aria che viene su dal lago.
È la tempesta che ha contrariato il cielo,
spezzandolo di stelle e vertigini di latte.
È il cane coda mozza
che viene, e lecca piano.
Nemmeno ti conosce e già adora la tua vita.
È il verme che ci impasta la terra
è questo odore
come di donna mentre si lava.
Ascolta bene
non c’è una foglia che non conosca il nome
del merlo qui venuto a vestirsi.
Là, lontano
si sfregano i lampioni come cerini al vento
la luce fa dispetto ai due amanti
l’acqua impara
nasconde le sue pietre da secoli, matura.
Come la voglia matta di togliersi dal letto
e correre nel tutto,
bagnandosi anche il cuore.

RITRATTO NUMERO QUATTRO

Vedi? È giorno
l’ingegno della luce ti ha rovinato il sonno;
o forse è la gonnella che porta a pungolarti
quel miagolio da donna spaesata, quando scende
e con la sua lanugine santa
mostra il sesso.

Stai alla finestra, storti i capelli
nuda e ingenua,
come un laghetto in faccia alla luna.
Poi ti siedi
nemmeno te ne accorgi del tempo che è passato.

Hai la mezza tazzina da prendere
poi un treno
del brodo di gallina per cena
e un mezzo morto
tuo cuore più allenato alla lontananza.

Godi
non è peccato fare la seta, o a brutto muso
toccarti con i denti le cavità.
Chiavare
o solo ricordarti l’odore, con un niente.

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LA GRAZIA

La grazia nostra è figlia del giorno di mercato
di arance da tastare, del pane duro e latte.
La grazia nostra ha spesso la tosse, fuma, beve
capisce il mandarino da come mostra il seme.
Garrisce sollevandosi il naso
e starnutisce
in fazzoletti fatti di seta, ricamati
col nome delle eccentriche sere sui balconi
a prendere quell’aria di primule marcite
venuta dalle fabbriche ocra, e dai pertugi
di marciapiedi sozzi e intasati.
Questa grazia
m’ha messo nelle tasche una biglia e un melograno
un fiotto d’olio santo alla fronte
e in corpo il miele;
la calma d’animale ferito
che tu ami.

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MUDDY WATERS 2 – 3 – 4

MUDDY WATERS 2

La sedia del barbiere
in cui sprofondavo un tempo,
metteva tra i miei piedi e la terra
un pugno d’aria.
Lo spazio necessario a una migrazione
o a un tram, di pettinare i fili a Cartesio;
su, a mezz’asta
nel limbo che i colombi disertano
nel grigio
dell’acqua da riporto venuta appiccicosa.
Lo spazio di una scopa tirata da un garzone
delle stracciate umide di varecchina e soda;
lo spazio che mettiamo tra noi e la vita forte.
Vicina come un gomito,
lontana come un ibis,
tremendamente presi a ignorare che alla fine
saremo solo terra e liscivia,
forse niente.

MUDDY WATERS 3

Non sono più quel moccioso
e me ne dolgo.
Tenevo in mano un osso di pollo,
e il petto gonfio
sembrava una motrice d’aereo.
Là in campagna
mentre tiravi l’acqua dal pozzo con le vene
ricaricate a inchiostro e bestemmie.
Dure,
dritte
l’adulta esibizione di ché sarei venuto.
Non ho più delicate rosette sulla fronte,
né perle di sudore a comprimere le tempie.
Le mie ginocchia, si, ancora magre
ma di cera
vicine al fuoco della battaglia.
Giorno e notte
qualcuno arriva e sporca la piana d’ogni cosa;
così che l’occhio sbatte su spigoli
e falene.
Così che l’occhio più non va libero
e si chiude.

MUDDY WATERS 4

Perché mangiare un piatto di pioggia son capace
e riferirti stessi lampioni
ora bagnati, ora cosparsi d’anime di trenta calabroni.
Le zecche dei frutteti
le risonanze azzurre
del gas che fa fatica a partire.
M’alzo ancora
con la ferita mezza seccata e mezza viva
la bocca che, direbbe mia madre, oscena e scura.
L’avidità con cui m’entra l’aria fa me un pesce
sul fondo di catrame di questa barca in ombra.
Ma un debito alla vita mi scappa,
molte volte, quando compongo l’angolo ottuso
alla persiana
il desiderio un po’ opacizzato
di volare.

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I MATTI

Se noi ci amiamo
il piccolo cuore fa disastri.
Non è come gli uccelli tornati il primo marzo
che pare siano andati in Irlanda a farsi belli
col miglio che ha colore smeraldo e fragolino.
Se noi ci amiamo
giù al dormitorio entra la luce
i passi delle suore scatenano tempeste
e i continenti vagano, dei gusci senza polpa
nell’Artico che pare un solario per gli ignudi.
Se noi ci amiamo
scricchiola il petto tuo, e il mio pure;
sembriamo due gabbiette serrate malamente
con dentro solamente il ricordo,
per fortuna,
di un astronauta senza l’ossigeno.
Se amiamo
il contagiri accelera il tempo
e il serbatoio, diventa un cisterna
per l’acqua piova agli orti.
Se noi ci amiamo forte
come i ragazzi o i cani,
rischiamo di scucire il vestito delle fate
di sollevare polvere e luna;
e poi dormire, con un sorriso duro
da uccidere, miei cari.

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AFFEZIONATO

Affezionato a una sveglia
al suo rumore.
All’unica piastrella incollata male
al legno
al suo profumo sangue di Cristo.
A una candela
la foto del bel mazzo di fiori che hai portato.
Affezionato a rose più blu del blu cobalto
del mare disegnato da un pescatore greco.
Affezionato all’attimo solo in cui ho poggiato
l’orecchio alla tua pancia
per ascoltare insieme
la figlia primogenita, la seta, la cicala.
Affezionato al filo slabbrato del bottone
del tuo grembiule per i mestieri
alla tua bici
oliata dieci anni soltanto prima, dura
per le tue gambe etiopi e pugliesi.
Alle ciabatte
cadute dal balcone e io passavo sotto;
alla treccia che gettasti come una cima buona
per invitarmi al fatto d’amore
a stare insieme.

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L’ODORE DELLE MANDORLE

C’è ancora, come l’ombra in cortile
o qui, nel cuore
le labbra imbarazzate del primo bacio;
il gusto, l’odore delle mandorle trite.
L’ho qui in mano
come se nulla fosse passato, né cambiato.
Tutta fatica in nome di dio:
curarne i fusti
alleggerirli quando la neve è troppo grave.
Nutrire con gettate di vento, alito caldo
la regola paziente ch’è dentro in ogni gemma.
C’è ancora
come un lascito triste
ed educato. Come l’alone sulla camicia
come il segno
di far passare questa mia bocca sul tuo collo.
La piccola farfalla che viene su, se indugio
se non voglio staccarmi da te
da tutto il bello.

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SIAMO DROGATI D’INFANZIA *
DUE FRAMMENTI

O la paura, forse, che alcuno si fermasse
per tendere una mano d’inganno
e poi rapire, il nocciolo d’infanzia
di chi per strada, solo
menava per la scuola i suoi passi, chiave al collo
di una freddata stanza svuotata a prime luci.
L’infanzia birichina di quattro caramelle
porte da sconosciuti gelosi d’incoscienza
del bianco che ti mette sul viso l’innocenza.
La santità che dio non protegge,
qui alla bassa,
dove le fila vanno e poi vengono
sei giorni
pellegrinaggi al duro lavoro, e poche ore
per riposare o fare l’amore.
Ricordassi, d’averne ancora voglia
dopo i libretti lisi
due conti del droghiere, i debiti saldati.
L’infanzia di una fresca gazzosa guadagnata
dopo portate casse di vino giù in cantina
o rassettato bene le sacrestia del prete.
L’infanzia del ciclismo per dilettanti: un lampo
di maglie e di colori veduti dal più alto
sopra le spalle nude del padre mio, là in basso
che per sentirmi il grido di forza rinunciava
al suo tresette al bar con gli amici.
Infanzia dura,
pittata di carbone e di neve fuori porta
di kerosene e mani vicine a quella ghisa
dove la scorza del mandarino ci friggeva;
spandendo un po’ di diva sciantosa in quella casa
fatta di un vetro troppo sottile, poca luna.

**

Toccava sempre a me far la tana,
chiusi gli occhi;
i numeri venuti come le mosche, a caso.
E il vuoto delle grida, nella pianura antica
la zuffa delle gambe che vanno alla salvezza.
Chissà cosa n’è stato di tante tasche vuote
dei tanti amici come gramigna ai prati biondi.
Chissà cosa n’è stato delle stagioni vere
l’asprezza degli inverni coi tagli sulle labbra;
le primavere e i frutti che aprivano i cancelli.
Chissà cosa né stato di quelle estati infami,
dentro le case come le api a colar miele
cercando alle ringhiere una fisima di aria
ventagli con le foglie più larghe del tuo fico.
Cos’è rimasto in fondo del marcio dei colori?
Di quegli autunni molli, slavati, con la frangia
che si posava unta alla fronte, fuori messa
quando le ragazzette ne uscivano alle dieci
sfinite per la predica
le madri come rose, spinose i nostri assalti
di malelingue e risa?

* da un verso di Tonino Guerra

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