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Archive for ottobre 2016

GIRO GIRO TONDO

E viene giù con pelle di fico, un polverone
rumore di pagaie inabissate.
L’altoforno
e tutto che rimane di questi alberghi a ore
di questi inurbamenti caotici ed odiati.
E viene giù con piena di sasso
come un tempo, le gambe dei migranti sui treni
niente in tasca, se non l’immaginetta di Padre Pio
e una cicca, arrotolata trinciato forte.
Giù, con forza
la forza del progresso e del tempo, in questa valle
che ha monti di macerie per lato, e tradimenti
nell’acqua le garitte dell’ultima battaglia:
di qua bandiere rosse per miseri danari
di là la polizia a dare botte. Giù, per sempre
come la testa del padre mio quando c’ha sonno
e non capisce il mondo dov’è che va a finire;
coi suoi leopardi in mezzo alla strada
e solo vecchi
la voglia ormai passata di protestare, e il mare
che sembra una tinozza di pesci rossi e neri.
E viene giù per farci qualcosa, altre chimere
rossetti e scarpe per nulla comode
giù in fretta.
Come quel ragazzino al cortile della scuola
l’anello indebolito del coro, giù per terra
il sangue sui ginocchi è un rubino d’avventura
cascato lui è cascata la terra, adesso è chiaro.

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PENSIERI DI NOTTE NUMERO SEI

Canto l’amore del due di bastoni
di un ceffone
del giungerti un po’ a noia con ‘ste coperte fredde.
L’amore che ha scordato le chiavi e bussa piano
perché la porta è già una bestemmia
e prende fuoco, col miele delle nocche passate sulla bocca.
L’amore grattugiato in serate di opinione
in quelle che nel cielo è un azzurro innaturale
come la carta dei macellai, o il sacro velo
della Madonna all’angolo ventoso della via.
L’amore che ti pesa e c’ha il fiato grosso, il buco
nel quale andiamo spesso a nasconderci;
l’amore
che parla anche di notte e rivela cose turche
le verità che fanno pochissima poesia
ma meno amaro il fingere, spesso
il senso pieno, dell’utile passaggio terrestre.
Canto e grido
sul ponte di una Senna che ha quattro dita d’acqua.
La lepre è andata sposa alla melga, c’è un airone
un albero di cachi che suda
e non lo so, se sono triste o solo un arbusto
un filo d’erba.

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Meraviglia

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IO TI VEDO

Se tengo tra le mani il tuo faccino
mi viene incontro il vento di Sestri
e quel profumo, di quasi cena in aria
che ora ti so dire.
Perché conclusi i giochi hai riposto la vestaglia
e vedo cose meglio di cento arcobaleni;
tutta la grazia data nei parchi la mattina
fuori la tetta ai figli
e la musica, là intorno
le foglie sopra i sassi a morire, fatte d’oro.
Le mani dentro l’acqua poi al largo
il tuo stupore, di come non respirino i pesci.
L’onda e il prato
che la fa uguale nella burrasca.
La tua infanzia
la leggerezza di una ragazza senza cinta
la rosa millenaria che mai appassisce.
Vedo
la mia pochezza farsi tuo uomo, il divenire
come le piante al cielo in inverno
nude e belle; nient’altro da nascondere agli occhi
che il segreto
di come si risveglino ancora, e noi con loro.

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IO TI SENTO

Ti riconosco l’odore, il fremito
il tossire
il lungo applauso al corpo ferito.
Io ti sento
che ancora cento metri ti mancano là in strada.
Perché ho l’udito e i sensi dei giovani animali
rizzo il pelo, e lascio scritto
– attenta che piove
porta a casa, l’asciutto del tuo seno
e l’umidità del labbro.
C’è una minestra fredda nel piatto
e un uomo nudo
disfatto come tela di nave dalla guerra
istinto e sobrietà nel dormire. Pazzo ancora
per te che sei la donna di schiena e altre morose
per quegli spazi fatti da dio in cui le cicogne
inventano dei nidi e dei salmi;
pei capelli, molati con dovizia severa.
Attenta al passo, ai tre gradini e al sesso di notte
io ti sento.

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PER FARE UNA POESIA SENZA CALZE

Per fare una poesia senza calze serve il sole
la terra mendicante tra la città ed un fiume
l’accento degli uomini cresciuti sui cavalli.
Per fare una poesia senza calze devi amare
le donne come fossero alberi
abbracciarle
e mettere l’orecchio alle corde della schiena.
Per fare una poesia senza calze non temere
digiuni e piedi nudi, la fioritura ai meli
non devi aver paura dell’acqua, della bocca
di dire alla ragazza che passa il suo splendore
la luminosità che produce. Il suo negozio
di spezie e pietre dure indossate.
Devi andare
a farti pettinare porgendo il capo sciolto
nel vuoto delle sue litanie, tra le sue mani
nel vortice accessorio che insieme al suo vestito
ti cambia l’aria intorno
la percezione intera
che qualche cosa di molto bello
è qui accaduto.

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Sui tetti stanno zitti gli uccelli
tutti in fila.
Seduti come stecchi ricordano i canneti
degli organi in attesa dell’aria
della luce.
Dell’unico momento in cui spezzerà l‘incanto
la prima donna con le persiane
ancora nuda, del sonno primordiale
che là, al settimo piano
per ore l’ha tenuta in un acquitrino informe
sospesa come certe libellule di fosso
che pare non conoscano tempo, spazio, e fine.

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UNA ROSA

Vedete com’è rigido il fiore nel bicchiere?
non sa che ci vorranno le notti
l’acqua sporca; satelliti su Marte
e vulcani a fare fumo.
Lui vive l’erezione dei primi, l’ingordigia
la corsa a fare nuda la bocca.
E in quell’istante
attira su di sé le metafore migliori
le ogive dei pianeti che puntano a capire
com’è che dietro un mondo di fame sia successo
che un misto di colori e bellezza sia cresciuto
muovendo gli anatemi dalle macerie, il lutto.
Nella sua essenza fragile racchiude poche cose:
la prima è l’alchimia che fa unire le persone
distribuisce incarichi e istinto
l’orgia santa, del perpetrare vita con poca terra e luce.
E dopo la tenacia con cui pettina il cielo
l’aprirsi come vulva campestre, la sua offerta.
E infine il declinare, ma con dolcezza rara
cedendo una ad una particole leggere
venute trasparenti e poi secche.
Senza grida, né pianti o atrocità da romanzo
torna a casa.

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GLI ANNI DEL LEONE

Cercare l’indirizzo di quella mano alzata
il furto di carezze alla madre
ora che muore, per sempre la stagione del bimbo
e dei barbieri;
cenacoli di vetro dove ammirare, scemi
le donne del paese che sono belle uguali
a quelle in Monte Napoleone.
Stesse borse, e storie di natura volgare
qualche uomo
indirizzato al settimo cielo, oppure morto
nell’atto di cavare qualcosa dal menare
i fianchi da campioni del mondo.
Tutto il credo, e gli anni del leone per strada
ecco che cerco
la piazza mentre viene spazzata
il mio giornale, e dieci aperitivi sul banco
qualche amico, che dice una cazzata col piglio del poeta
e dopo tutti a ridere sani, gran signori
di capannoni e ditte fallite.
Ecco che torna
l’odore di coperte leggere, e di bucato
la sua fatica adesso che è umido e ci piace
tenere tutto il mondo di fuori;
una minestra
di quelle avevo poco qui in casa
ma fa uguale.

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LE COSE CHE NON SAI

Non c’è poesia né musica, la meglio scritta mai
che possa ripagarmi di una carezza tua
dell’ode al seno verso le undici
che fai
quando stravolta casa e giornata
lasci un po’, che tutto sia domani o quell’altro.
No, non c’è
non c’è parola santa che valga un dito tuo
nell’atto di scostarmi i capelli, e dire
– ciao, non ti preoccupare per me
ho vissuto già
il giallo d’Indonesia e le povere virtù
le stelle a precipizio tra gli inguini
e il Mistral.
Non c’è dialetto al mondo che per la bocca tua
diventi una tovaglia di Fiandra
un lupo, un Dio.
E a nulla vale tutto ‘sto scrivere di te
senza desiderarti qui almeno per un po’
senza voler sparire nella vagina tua
riemergere più pesce che uomo
e fare Olè!
che bello è stato viverti, ma forse già lo sai.

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