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Archive for dicembre 2011

GEMME

Ti dico della volpe, con la sua coda rossa
la strada con un cenno indicata
la salvezza.
La sua eleganza è la gioventù che avevo
i cani il letto triste del tanto non amore.

Ti dico della lontra che scivola, di pietra
nel fiume nome semplice e povero
il suo peso
corredo di un istante sognato
un guizzo antico
simile a quello che insieme facevamo
io ed il mio corpo serpe di luna.

Dico l’erba, il mais novello per le poiane
e quelle gemme
capezzoli immaturi di un latte passeggero.
Ti dico le ho succhiate per tutto il tempo giusto
ne ho ancora qualche festa annunciata per la bocca.
Insieme a tenerezze vicine agli occhi
e in fronte
nel cavo delle mani, sul petto
tra le rose.

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PAGAN POETRY

C’è una svagata di sole, stretto, maschio.
Tra le fessure del pensatoio
e i suoi orecchini;
che fa oscillare come altalene, ora che fuori
è tutto un susseguirsi di lenzuolate in aria
di piume, e di guanciali ammogliati.
Là è l’altare
dove si fa l’agnello e la rosa
dove preme, sulla ringhiera
il monte dei cedri. La sua cruna
per il mio sesso fatto in cotone.

Vai, mia cara
maturati nell’acqua di verza
vai negli orti, nei calici di terra rappresa.
Insegui, sciama.
Fa che il cappello mio per l’estate ancora viva;
dipingimi due fiori sul viso.
Sii capace. Come capace è il seno di latte
il corpo intatto
il tuo sedere chiaro mattina. La sonora
velocità dell’aria che includi alle tue ascelle.
Quando le mostri in gesti spaesati
e poi in vogate.

Arido fiume il mondo sarebbe
alla tua assenza.

Massimo 26 dicembre 2011

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PIUME DI STRUZZO

Quando ti togli maglia e stanchezza
mi fai vivo
perché soltanto allora mi prende come un lampo
che giù dai piedi sale, fino ai capelli.
È l’agro
di non poterti dare le piume da regina
un po’ di vita senza la sabbia in mezzo ai denti;
due vasi con i fiori
per quando t’alzi a notte
e con il male dentro la pancia, piangi un sacco.
Ma con la discrezione di certe sante antiche
che fanno finta sia un po’ il destino
un po’ il piacere.
E ancora quel sapore mi viene, quando torni
e fai frusciare il letto come una fiamma in chiesa;
tirando su dal naso tutto il viziato d’aria
le ore che ci mancano
al cappotto ed alla strada.

Massimo 23 dicembre 2011

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TI BACIO SULLA BOCCA

Ti bacio sulla bocca perché hai un sorriso molle
e perché inciampi sempre nella vestaglia scura,
come una ragazzina nei panni della madre
quando da sola in casa volteggia come un merlo.
Ti bacio sulla bocca per ascoltarti il fiato,
il fiume della notte che t’è rimasto dentro
con tutti i suoi bagnanti addestrati
i rami secchi,
le vecchie biciclette gettate
l’acqua nera, più del petrolio
o il vino rimasto nel bicchiere.
Ti bacio sulla bocca anche se non sei mia amica
se mi hai tradito ieri con l’ultimo dei libri;
ti bacio sulla bocca perché si fa cagnara
di fuori, sulla strada dei gatti
sul sagrato, giù nella piazza dove i politici fan fumo.
Ti bacio sulla bocca con fare un po’ animale
d’istinto, come uscissi da un cavagno capovolto.
Ti bacio sulla bocca perché mi viene bene
e tu mi fai gli applausi
e si muore un po’ di meno.

Massimo 18 dicembre 2011

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PRIMA DI ENTRARE

Prima di entrare, di togliermi le scarpe
di farmi riconoscere da questa casa austera;
ho strofinato tutte le dita sulla menta
lasciato che una rosa di pietra mi cadesse
e fatto un letto giallo di foglie, per il volto.
Ché tu mi capitassi
anche senza luce o voce
come s’orienta quello che ha stelle per incroci
e ruote sopra l’acqua foresta.
Si, l’odore
il modo con cui accosto la porta, le mie cose
sensibilmente esauste talvolta
un po’ sgualcite, come le storie senza un finale
scritte a mano, orlate con fatica di mondo
le occhialute.
Prima di entrare ho dato l’orecchio a un muro d’ombra
perché mi raccontasse la voglia che ha del sole
di pallonate fino a dolerne
e l’ho toccato. Come si tocca un figlio per credere sia vero.
Perché ho bisogno sempre del mio contarespiri
di ricordarmi un vecchio compagno nel suo sonno
di chiudere più a lungo questi occhi galleggianti
e insieme al sangue da una narice
andarmi altrove.

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L’ADORAZIONE DELLA TERRA

Ah!
Fossi capace a fare di te una terra rossa.
L’adorazione rituale del lavoro,
la semina intontita che t’ubriaca e vive.
Troverei meglio parole nel toccarti
nel liberare il gesto che si tramanda, netto.
E dice – l’estensione del culo tuo
è il mio Sinai, il mare già diviso
la croce sopra il pane.

Fossi capace, si
a metterti del grano dentro le tasche buche
negli attimi che il solco concede,
nel profondo.
Ti scorderesti il gusto di casa, l’acqua al pozzo;
gli ombrelli sopra il tram per il folle rifluire
dei liquidi che annotano gli anni sui ginocchi.
Per quella malattia che decide la postura,
il largo delle gambe
e l’ombra di una dea.

Fossi capace, si
potremmo forse meglio venire vecchi insieme
come le donne a campi di riso
o quegli amanti,
che mettono gli occhiali da sole per firmare.
E l’olio sulla chiave per fare via il rumore
dei piccoli vestiti pesanti, dei capelli
di tutta quella luce già spenta, ma tremata
ancora in aria come un anticipo di giorno.

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ITACA

Il sonno dei malati è carta straccia
è buccia triste e occhi pinzati;
nulla in vero
che possa far pensare alla barca per i sogni.
Il sonno di mia madre
sembrava l’agonia dei pescetti a porto vecchio:
in poco spazio ottanta invitati lì a guardare
le pinne, e poi le bocche
sputare l’olio santo.
Il letto era di quelli intagliati nell’ulivo
mio padre aveva il posto di Ulisse
là in cucina, un numero per ogni emergenza
un mare dentro
da non riuscirci più a stare a galla.
Era invecchiato.

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Da un verso di Erri De Luca

Non lasciarmi il corpo sopra i sassi
nuvole basse potrebbero alleviare,
tenute insieme con nastri rossi e mani;
le mani di una madre allagata in una stanza
mani di cigno quando s’elude
e guarda il fondo.
Mani di sabbia al vento che scalcia
mani in grembo
memoria delle lune che fanno il vino buono;
le lune che apparecchiano il cuore a nuova vita
le lune nella carta stagnola, regalate
dal primo amore troppo leggero:
perché il freddo
è un cane che ti prende alle spalle
è un cine chiuso
la pletora dei tanto ti ho amato
che ne ho male.

Massimo 07 novembre 2011

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Tutti i poeti del mondo hanno un fucile
un lapis per vedetta
un secolo di piombo.
Hanno le rotative smangiate, le giberne
piene di fiori fatti di carta
l’uomo in mente, che siede su una panca
a contarci delle storie.
Tutti i poeti del mondo hanno vissuto
col naso sopra il filo spinato della morte;
contenti di grattarsi la rogna della fame
d’aver patito il freddo, le cosce di una donna.
Contenti delle loro minestre, del lavoro
di un’istruzione poco adeguata
di un cancello, con sopra il nome senza disturbo
di Francesca.
E due leoni fatti di pietra, un po’ invecchiati:
un posto per camparci le foglie
e andarci cauti
con noi, poco coraggio nel pugno
e molto sonno.

Massimo 03 dicembre 2011

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BLUES N.4

Unico indizio una tazza colorata
un pertugio alla finestra
e un po’ di chiaro fumo.
Vorrei mi ricordasi così, come un mattino
una conversazione di maggio
una violetta.
Cresciuta oltre la rete di quei tuoi conoscenti
dove i cavalli avevano il muso a noi proteso
per farsi carezzare, e sparire, infastiditi
da cento mosche sopra la coda.
O un corso d’acqua timido e allegro
come credi,
purché ci metta dentro una intera famigliola
di anatre, e di petali accesi.
M’ama, forse.

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