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Archive for gennaio 2024

LA PUNTA NEL COSTATO

Bisogna amare l’istruzione

e il piatto di semenza.

La forbice al tessuto per il vestito buono.

Bisogna amare il pane nel vino

il latte caldo, la sera che fa inverno

e si gelano i pensieri.

Bisogna amare il verbo

che suona come il tino, il secchio

caricato a pastura; e poi i figlioli

i ceci messi a bagno, i pomodori al sole.

Bisogna amare Dio

che ci ha fatti a somiglianza

soltanto alle quattordici icone, e nella croce.

Abbiamo tutti odore di legno

e sangue pisto, abbiamo tutti un regno

invisibile, da offrire.

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SU UNA GAMBA SOLA

Si tocca il filo di ferro, per tornare

feriti alle sue cure di lungo corso:

un bacio, dove non sanguina più

una garza sporca.

E dentro gli occhi di pianto, un’ape

un fico, dell’uva appena colta

pulita col grembiule.

Si tocca il filo di ferro arrugginito

sottile come il vizio di bere, come spina

coltello, e inganno della premura.

Si oltrepassa, dopo la casa di legno

dopo spago, attrezzi da lavoro

che han preso l’acqua piova.

Per rimanere come una foglia

qui a mezz’aria, tenuti su dal vento

finché lo vuole lui. Tenuti in vita

quanto è possibile, aiutati

dal gusto dell’amore, del bello

da un incanto.

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DIVERSO DAL DOLORE

Oggi è chiaro, è stato un vento

a tratti straniero e il monte è gioco

vicino alle tue dita che corrono sul vetro.

È una giornata azzurra di quelle molto rare

nel letto di pianura si tempra solo il grano

la nebbia bassa, come di brace

e il lungo canto

delle camminatrici adoranti in processione.

S’è fatto nudo l’olmo e l’acero è imperlato

c’è tregua al tuo respiro affannoso

c’è speranza, che il giorno sia qualcosa

diverso dal dolore.

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PRIMI PASSI

Le misi in tasca una lettera frugale

il destino della luce, le debolezze umane.

Le misi in tasca un seme di pesca:

tra vent’anni, verrò a vedere l’albero

cresciuto, e la dimora. Verrò

a vedere bene se lì tu abiti ancora;

con le promesse grandi di donna

i bei capelli, l’odore elementare

dei figli d’operai.

Verrò a guardare tutto il paese

e la carcassa, di ciò che un poco ingenui

chiamammo amore, o sbaglio.

Con una lettera nuova, ugual tenore

calligrafia bruciata dal tempo

non il cuore.

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PICCOLE MORTI

C’erano fiori d’inverno giù al paese

lembi di prato scampati alla sciagura;

li abbiamo messi in centro alla tavola

e guardati: sembrava custodissero

risposte a tutto quanto, alle tribolazioni

ai movimenti in terra. Le rotte dei celesti

e la luna bella gialla.

C’è poi caduto un petalo

sull’onda del bicchiere.

Un naufrago dal nome d’Ulisse.

A buona intesa

l’abbiamo riportato sull’isola

al suo regno: le capre

case piccole in pietra, fitti ulivi.

E poi t’ho tolto l’umido agli occhi,

lentamente,

come si scarta a volte un dolcetto,

una vestina.

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UN SEGNALE

Leggiamo separati, ma con il corpo affine:

un’unghia, un piede freddo

un graffio sequenziale.

Un’unica parola che abbiamo conosciuto.

Chiamiamo notte il viaggio di noi

che siamo uccelli, che guardano

si studiano, poi beccano distanti.

Simili in volo soltanto quando chiamo

o al battere di mani senzienti.

Lo sappiamo, di fuori il ghiaccio

muove i suoi passi, fa conchiglia

si stira dopo il caldo dei termos, della cena.

Leggiamo e bivacchiamo

toccandoci ogni tanto

presenza necessaria a due ciechi.

Se è l’amore, non ve lo saprei dire

con nitida certezza;

ma ne ho bisogno come se un ramo fosse

un faro, nel gelo d’acqua scossa d’oceano

un segnale.

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TI SCRIVO A VOCE

Bisogna cancellarle dagli occhi

le parole; farle cadere

nel secchio della gola.

E tendere la corda a propiziatoria luce.

Se il petto è una voliera,

si liberino i canti, lo sfarfallio

è di un tono più sotto, il sole è niente

se pure il giorno, a volte, la Luna

se lo inghiotte.

Bisogna che le diamo dei nomi

come: mela, qualcosa

che ricordi la rosa e la sua goccia;

quando non sai se è di pianto

poi che cola, o dalla generosa nottata

è stata amata.

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CI HANNO VOLUTI QUI

Ci hanno voluti qui, per consuetudine

o noia, o per destino. Perché

una sera d’inverno, il loro amore

ha scaturito il seme col fiore

e poi la terra, e l’acqua intera dei sette mari.

Poi la luce, l’aria violenta che brucia.

Tutta storia, passata sopra i muri

scrostati dalla nebbia. Ci hanno voluti qui

a fare figli a nostra volta;

dopo spezzate le braccia, e gambe, e cuore.

Dopo aver corso per miglia e ferrovie

poggiato sui binari l’orecchio alle sferzate

all’arrivo del futuro, e a tutte le speranze

chiamate gioventù e bella casa. Qui, anche ora

ad aspettare il gas col caffè che fa fatica

il poco zucchero e il rumore del cucchiaio.

E quello fragoroso degli anni che van via.

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PER SEMPRE FIGLIO

Fiera così non t’ho mai vista

più dignitosa al tutto;

ora che il secolo ride e ti saluta

chiamandoti per nome come a una festa estiva.

Per sempre figlio mi sento, ben protetto

sia pure nei capelli risuoni un vento adulto

e per la bocca ho trecce dell’edera cresciuta.

Per sempre figlio, guanti da povero, scuciti

minestra fredda sopra la tavola

e l’attesa, delle tue sporte magre d’arance;

i pochi soldi, sudati, inginocchiata

alla casa del dottore.

Poiché la cura è la stessa, fammi uomo

raccontami del ghiaccio e la fabbrica

e i motori. Di quel tuo sposo tanto agognato

e carezzato. C’è un sentimento forte

e giocoso alle tue mani, son quasi trasparenti

due foglie, due pernici.

Hanno la consistenza degli alberi d’infanzia

la grazia naturale ch’è innata alle bambine.

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