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Archive for marzo 2012

CONTO TRENTA

Se mi permetti, vorrei il mio volto, ancora
tra le tue gambe inclini al fiorire;
meno triste
mi sembrerà ora il pasto di pietre
meno tristi
avrò le orecchie colme di treni
e passi svelti, di chi cammina come scappasse
via dall’ombra
come aspettasse brutte notizie, figli in guerra
il grano andato perso per secco
o per tempesta.
Soltanto un’orazione tra la tua gonna e il nero
là dove nasci tutti i segreti e sei due volte
più morbida e circense
nei gesti dell’amore.
Soltanto per un attimo ancora, conto trenta
mentre nascondi il pizzo tra gli inguini bruniti
e il pane di domani alla iuta.
Mentre gridi, fermenti e fai che il mondo
conosca quella pace
che viene per le frasche del corpo
come niente.

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QUALCOSA E’ ANDATO PERSO

Vedessero, i miei vecchi, come sto qui seduto
privandomi del sonno
come del loro pane; per mescolare quattro parole
chiodi, legno.
L’epifania di un bel viaggiatore di campagna.
Vedessero com’è che li vedo farsi curvi
malati di apprensione verso una strada buia
che gli dovrebbe dare il profilo magro e dolce
di uno mentre torna da un giorno di fatica.
Vedessero com’è ch’è finito il loro mondo
quanta immondizia verbale nella gente
quanta invidia, arroganza e volgarità nel rito
di corteggiare senza le rose
senza il tempo;
il giusto tempo fatto a rispetto e solo mani
teneramente sopra la fronte
alle panchine, nell’ombra di un sedile da cinema.
A un Caffè, guardando mentre piove
la strada, coi tramvai.

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Sa di sapone e acqua che corre, di lavanda
di api come uscite impazzite sugli avanzi;
del cane che strattona il suo collo alla ringhiera
o qualcuno che ci porta la posta, oppure il pane.
Sa di quell’umido che non s’asciuga, e buio
di tende spesse e vecchie pignatte
della sera, tutta pulita a luci che spuntano dal niente.
Di rondini tornate a inseguirsi sotto i fili,
dei panni, o delle nottole in carne
tra i dolciumi, di nuvole levatesi dal fresco del canale.
Sa di trinciato e unghie tagliate a bell’e meglio
bicchiere mezzo pieno da intingerci una pesca.
Sa di cucina, di donna che lavora
che inforca un motorino con le sue cosce molli;
di occhiali per cacciare le mosche piene d’aria
foulard che tiene insieme le rose dei capelli.
Sa di quel gusto che, a volte, viene ancora
quando mi scaldi il caffè
o mi manca il sonno
quando fiorisce il ciliegio e sembra il giorno
che ho visto i figli uscirti di pancia
e venni uomo.

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OSPITE

di una interesante rubrica nel blog di Stefano Re

Massimo Botturi sulla poesia

grazie infinite a Stefano e a tutti quanti gli amici lettori

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LO SPAVENTAPASSERI

LO SPAVENTAPASSERI

Batterei forte, con un bastone a caso
la vasca per la pioggia che hai messo nel giardino;
per fare via chi preda i tuoi frutti
la tempesta
la voglia di scapparti il sereno.
Per chiamarti
correggere attenzioni e la fissità degli occhi
su me che già compresi i tuoi vicoli
e ti so, ferocemente nuda sotto la vastità
di quattro mantellate di terra e terital.
Su me, che so il bisogno e la carità dell’acqua
e il dito che mi asciuga quel filo di saliva
davanti alle vetrine del centro
o ad un incontro, nei terrapieni a fine del turno.
A me che inciampo, in quattro nodi d’aria e di polline
per strada, sopra le carrozzate dei semplici trifogli
nel ventre di una rosa che ho qui
per bere e uscire
dal mese delle brutte notizie, dal dolore.

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BEAUJOLAIS

Ricordo, aveva un nome francese il vino rosso.
E quando poi è arrivato alla fine
un fiotto nero; come un salvadanaio
del buio alle cantine.
Dicesti – cazzo!cazzo!
Tre volte, poi ne uscisti.
Non era formidabile il gusto, niente affatto.
Avevi ancora tutto davanti, tutto il triste
lo schifo e quella voglia di sesso ormai sbiadita.
Avevi un cormorano bendato sopra il seno
un principio di tempesta
una barca rovesciata.
La faccia mia prestata a un patetico dolore.
Le unghie da tagliare, i vicini a fare chiasso
i vetri con la pioggia di neve ancora addosso.
Le sigarette quasi finite, gli ossi buchi
da mettere nel frigo;
e la voglia di pisciare.

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CONCRETO

Come già non lo fosse il mio rapido andare:
vettura diciotto
il cappello col fregio;
sulle scarpe la terra del più lungo dei viali
quello dei crocefissi, delle panche slavate.
Di concreto io penso al sapore, all’odore
alla gola che fai sussultare se mangi
se poi deglutisci e mi dici, concreto!
Che vuol dire attraversami su in verticale.
Di concreto conosco le gambe
e quell’ombra
che ti viene se fai meridiane con loro.
Di concreto amo il salice
il nudo di donna, la vacanza di un giorno
le tue mani alla schiena.
La teoria che i tuoi seni divergano un poco
la poesia che racconta il mio prenderli
ancora.

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JONI MITCHELL

C’è un tempo che alla strada di casa smette il buio
e pare che germogli per me l’oceano prato.
Un tempo che non sei più distratta e metti mano
per una o due monete alla tasca;
poi mi chiami, pretendi che io canti come la Mitchell
dea. Di Amelia e il suo peccato di vivere
dei posti, in cui fermammo un giorno
col freno a farci amore.
Un tempo di tappeti, e di sorsate d’aria
di alberi in gran spolvero come a una comunione.
Un principio di rossetto sugli angoli del dire
la smagliatura che ti dilaga
tracce d’ozio, per bene camuffate sotto un tailleur da schianto.
Un tempo che i bottoni non prendi mai sul serio
che pensi non sia male il tuo bianco tra i capelli;
e non sia male anch’io, dal nuvolo degli anni:
in fondo un parapioggia discreto
corde salde, di un’altalena niente sicura.

California, California i’m going home.!

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Una luna spaventosa già allarga la sua gonna:
fanno del tango lassù, miei cari.
I cedri malandati
si mangiano le foglie per troppa ombra in cuore;
le case si sputazzano luce, l’una all’altra
come alle mani fa l’uomo al campo
il vangatore.
O quello con la lampada in testa, in qualche buco
prima del puzzo che dice morte
prima ancora, d’aver pensato a un metro di terra
per suoi ossi.
Dite ai bambini di ritornare a casa
minestre fredde ancora per cena
acqua e vino.
Le donne si consumano gli occhi sopra i panni
coperte doppie per la nottata
e l’orinale, ch’è sempre da svuotare
per dio! Si faccia presto.

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