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Archive for settembre 2016

un altro regalo dalla Voce di Luigi. Seguitelo ne vale lapena

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LA BESTEMMIA FATTASI FIORE

Più sono morti e più annusano di vero
del cuoio delle loro cinture.
I miei poeti
sono i poeti d’altri
i tempi in cui carezze di gatto erano tutto
ed una bella vista faceva casa un regno
con dentro una regina di spalle nude
e trippa.
I miei poeti
son quelli le cui vacche di adagiano di notte
per fare vitellini nel sangue ripetuto;
hanno nel cuore zolfo e salmastro
il muschio in viso, degli alberi mai esposti nel sole.
Niente santi
nemmeno la bellezza di certi amanti eunuchi
ma la bestemmia fattasi fiore a pronunciarla
quella visione tutta concreta del futuro
di certa terra sempre franata
dell’andare
possibilmente lucidi e attenti, in quell’altrove
per constatare assenza di Dio
o farci a botte.

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NON E’ ANCORA BUIO

Ho avuto anch’io il mio maestro preferito
e un albero da farci scommesse.
Ho avuto api
alcune furibonde a salirci, altre mansuete.
E tutto è ciò che sono
tra l’uomo e poca essenza
tra il desiderio niente pulito ed il sublime.
Ho avuto le lentiggini acerbe dei tuoi anni
e le ho elevate a lucciole accese
ho avuto il morso
delle tue dita costola a costola.
Io, tuo Adamo
mi son lasciato correre a serpi e rose insieme
ed ho annunciato il verbo di spada, e poi di fiore
la lega sangue e bava del nascere, la luce
che fugge gli occhi belli per non sciuparli.
Il canto, del tordo e della madre a buon’ora
ho avuto il petto
dei tanti amori a empirmi la bocca.
Anch’io ho sofferto
goduto e scritto qui la mia vita, adesso è ora
che alcuno legga un po’ di memorie, e lasci andare.

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SIAMO STATI QUI

Non chiede sforzi la poesia dell’amarti.
E del lasciarti
quando la smorfia è spina di alloro
ortica e sterpo.
Non chiede sforzi usare il tuo nome
dirti bella, nella tua verità più rabbiosa
e il disincanto
che viene quando muore di sera la ragazza
e nasce un dio notturno spiumato.
Nulla chiede
dell’eleganza fine ai poeti, non il vanto
la rima o la preghiera dei monaci.
Ma il pianto
l’essenza di quel mare d’averti avuta accanto
il privilegio e il gusto di darti queste mani
e lingua come unguento ai tuoi giorni.
Nulla chiede
di certe seduzioni passate, acrobazie
o genitali in cerca d’amore.
Solo il fiato, per far le scale a poca insalata
del buon vino; che più ci faccia ridere
di quello che ora siamo
di quanto abbiamo fatto di buono, oppure meno.

Qualcuno giurerà fosse un’ombra
un uccellaccio
qualcosa ch’era un attimo fa
volato via.

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AL CAPOLINEA

A volte agitazione è miseria, e cento lire
lasciate sul bancone del bar
mattina presto; col fumo delle prime corriere
o i neon del tram. Sul seno prosperoso che ti si piazza là
ti chiede qualche cosa da bere
o via, menare, non stare con le mani alle tasche.
A volte parto
raggiungo una sorella in America e m’illudo
d’averla come l’asso di cuori, anche un’amante
che dica piccolino mi prendi un po’ da dio.
Ma poi finisce sempre che bibite e caffè
si mischino agli odori della portineria
al muso in terra a un cane randagio, una cartaccia
al cellophane dei fiori che han fatto così sia.
C’ha su un cappello ridicolo, lo so
ma sotto è una giunchiglia di donna
e quella là
per me è la meraviglia del mondo.
Mica qui, veloci da spavento le macchine, le idee
che in fondo serva vincere al Lotto
e andare via.

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POESIE SENZA UNA DONNA DENTRO

Le poesie senza una donna dentro
son come certi film di quart’ordine:
spaesati
noiosi come i bimbi che han sonno
e proprio nulla, non vogliono mangiare
né bere. Sono sciatte
come certe vestine là appese di nessuno
sfibrate e scolorite dal sole.
Come i tram, in panne nelle piazze
e ci cagano i piccioni.
Poesie senza una donna si spara a mezzogiorno
si muore tutti presto senza vissuto niente.
Poesie senza una donna è una vita dolorosa
un monastero dentro le tasche, neanche un euro
da mettere al cappello di Gregory. Poesie
io non le concepisco senza guardarle un poco
senza la fratellanza che viene al loro suono;
alle chitarre gonfie che mettono ai capelli
l’estate, quando sopra i balconi stanno insieme
e fumano ridendo dei pirla per la strada.

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BUON ANNIVERSARIO

Con carta di giornale, due prugne, un accendino.
Il fiocco ce lo metto per finta
tanto allegro, che passi inosservato come ai tempi di guerra.
E non è forse stessa tensione ora nell’aria?
si aspetta la notizia che rompe il tetto, il sonno
dopo l’uncino della mitraglia, del dottore.
Tra queste lenzuolate di fango e di pertugi
perennemente senza ritegno.
Tanti auguri
ce li portiamo dietro dal vecchio ottantadue
noi magri da spavento col corpo sempre in tiro.
Felici di scoprire la lingua, i giorni appresso
le sue complicazioni e capacità oggettive
di far cantare il bronzo nel sangue.
Mia diletta
mio pesce d’acqua scura e agitata
da te vengo
col dono di sembrarti migliore, ancora audace
con frasi oscene adatte al tuo culo
e tenerezze, da sempre conservate in saccoccia
come i bimbi.
Da te, col mio cappello di vento, i pochi sguardi
al due di picche delle signore, a certe gambe
fiorite nella notte per colpa di nessuno.
E vengo col mio sacco di dolci e di carbone
se non sei stata brava e soffrirtene in silenzio
a mandar giù colori e pastiglie. Da te vengo
e dopo un giorno tu verrai a me, metto bandiere
di pace a macchie rosse di fragola, e poi niente
così ché si scateni l’inferno a ‘sto congresso
di sensi mai perduti davvero.
Auguri a iosa, lanciati come i semi di zia là nel cortile
o le sassate ai vetri del matto, auguri a sbafo
auguri messi in banca, o meglio, spesi tutti
in cozze e vino bianco del posto, e poi a dormire.

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CARTA E PENNA

Qualcuno lo farà di nascosto
a prima notte
un po’ per la vertigine bianca di ‘sti posti;
e un po’ perché bisogna pur inventarsi un Dio
tenendo un amuleto al cuscino
un foglio liso
sul quale presentare l’infanzia, la felice
i giorni che col freddo battevano sui denti
le centifoglie e i baci di un bel moroso moro.
Qualcuno scriverà dando conto della vita
col segno rosso i tanti momenti del dolore;
col blu le cataratte d’amore, le cicale
il mare che fa bene alla pelle cittadina
il vento con il sale dell’isole, i lamenti
dei lupi nella neve, da qualche parte a nord.
Qualcuno ingannerà attese e morte
il lezzo dell’orina che non sa trattenere.
Qualcuno proverà l’erezione, il canto a festa
piangendo poi alle cose domestiche lasciate
al NO delle infermiere per dolci e vino.
Altri
s’incanteranno come le sveglie senza forza
sull’unica parola che viene
e va già via.

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CAMPIONI

Tu l’hai veduto con tendini di gatto
lanciarsi a peso morto nel cuore di una donna;
gli hai visto, più vicino a Natale, dieci sacchi
sudati un extra il sabato e tutte sante sere.
L’hai udito bestemmiare dei nomi sconosciuti
urlare da un ponteggio qualcosa di animale.
L’hai visto fare sciopero piangendo per i conti
stramaledire tutti i compagni, e poi pentirsi;
piantare l’insalata più dolce che alle donne
sputando più lontano se dopo tempestava.
L’hai visto impomatato soltanto per la messa
tenere sotto cellophane le braghe della festa;
soffiare forte il naso alla morte del fratello
venendo via tenendosi a un legno.
E adesso pesa
i mille mondi mai visitati, ed i dolori
di mamma dentro un letto di braci. Adesso dorme
ad ogni crocevia ed ogni sosta.
Viene spesso
al prato con la rete metallica: giocavo
e lui mi sorrideva, come si fa ai campioni.

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