LE MANI SULLA RETE
Oh, carità dei poeti, dimmi il giusto:
fu bell’inganno la musica dell’acqua
oppure l’innocenza di un divenire scritto?
Quando lo vedo poggiarsi agli anni nudi
mi pare ancora canti come un uccello al poggio
col riso che si spande da bocca al mento spino.
Che ci sto a fare qui al mondo? Ha confidato
toccandomi le mani come attingesse a un fiume.
Il resto della sua gioventù che ora matura
ha il gusto della menta nell’orto, pioggia, legno.
Sterco di vacca e fieno in fermento
vita piena.
IL VENTO A LENINGRADO
E pensa che fischiare alle donne eri capace
con quel tuo petto nudo più simile a un coltello.
Cos’è rimasto del giovane nel pozzo?
Calato come un piccolo secchio per tastare
se la stagione avesse tragedie o ancora speme
turaccioli cavati al vin buono, e notti piene.
Cos’è rimasto di quelle camminate?
Ventaglio aperto a piedi ingombranti, l’ombra appresso
come se a fine del viaggio fosse un soldo
la ricompensa a tanto sudore.
Giovanotti, voi non sapete del buio alla campagna
troppa violenza per strade senza stelle
troppo rumore nei Bar, per le autostrade.
Lui annusava il vento che ancora a Leningrado
tirava pei garretti le donne.
Adesso dorme, precipitato come la neve
forse sogna.
CIAO, STAI BENE
Mio padre ha piedi stagni, più duri del granito.
Li mette a volte in scarpe di ferro, e poi li scorda.
Non governa
non imita l’incedere orgoglioso di un guerriero
ma il pomo che sul ramo più alto vede il mare
l’abisso in cielo e il tonfo giù in terra.
Non si piega, impreca e chiede a Dio di salvarlo
sommamente,
pregandolo di farlo leggero, un nuotatore;
che torni l’erezione magari, e anche il sorriso.
E intanto si consola con pesche dentro il vino
la mani sul sofà quando gioca bene il Milan
la luce meno cara sto mese, e la cicoria
venuta alta in pugni di terra.
Ciao, stai bene.
UN GIGANTE
Così felice che si scordò anche il tram
e come una tradotta di militi, via, andare
le ore giù al lavoro come un bicchiere amaro.
Prima del turno vicino al letto breve
di me che mi succhiavo le guance, già curioso
del mondo di carbone di questo nord basito
infetto di lettighe e putrelle.
Poche paste, un litro di quel buono la sera del ritorno.
In quella timidissima casetta di ringhiera
l’inverno appena fuori dall’uscio, e primavera
malferma sulle gambe per via delle corriere
del fumo messo in circolo già prima di buon’ora.
Adesso che vacilla sul corpo tempestato
vorrei potergli dire che io l’ho visto, si;
che pure in pochi giorni ricordo certi voli
dal tavolo al soffitto. E poi giù, salvato in tempo.
Allora io pesavo d’un niente, lui un gigante.
GIORNATA D’INVERNO
Non mi guardare allo specchio, ora che fumo
in piedi dietro mani di briscola. Rasato
di fresco come a festa conviene. Non hai gli anni
né storie d’operai che mangiano da soli.
Non mi guardare che i padri sono tristi
bevuti di Sambuca o di vino dozzinale.
E lascia questi canti da farci quattro lire
a chi non ha studiato che i seni alla morosa.
Non mi guardare allo specchio del Cordiale
ma dentro, dove piange quel lupo senza denti
quel fischio delle bombe che non si può scordare.
Aiutati così a venir grande, studia, impara.
TI PETTINO CHE HAI BELLA FIGURA
Un po’ come quel bimbo che corre senza meta
al volo di un piccione che vede due molliche.
Oppure, guarda il treno rossastro pieno d’orzo:
ma quante foglie impazza passando accanto gli orti?
Così è stata la vita, l’abbiamo intesa poco
s’è fatta via le suole giocando sull’asfalto
e ha preso a colorarsi di arancio come il sole
adesso che smangiucchia le piante qui alla bassa.
A casa è un forte odore di orina, non la tieni
tracima come carne che incendia sopra gli ossi.
Il quadro dei tuoi giorni migliori soffre il chiodo
ti pettino, che hai bella presenza, tanta storia
le mani mica sempre a comando, ragazzine.
ACCENDO LA MEMORIA E NE ASPIRO QUATTRO TIRI
Come una semina d’api lungo il nido
ad ogni pianerottolo un pianto senza fine.
E mentre più nessuno cammina fuori luogo
accendo la memoria e ne aspiro quattro tiri.
Non è proibito il gioco d’infanzia
il sasso, il cerchio.
La tua pettinatura che svetta come un elmo.
Non è proibito il latte sull’uscio, questo odore
di naftalina dentro il cappotto: è la maniera
di dare protezione alle cose vecchie e buone.
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