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Archive for giugno 2012

NOTA DI CREDITO

Ti lascio poche righe al caffè,
viviamo dopo,
dopo le case sfitte e quei piccoli incidenti
che fino alle ventuno ci tengono a Milano.
Come spettasse a noi solamente far di conto
serrare e poi levare le chiuse sui canali,
tirare bene gli orli dei campi per la notte.
Ti lascio poche righe che tu sai decifrare
le mie poesie, del cibo di ieri
fogli sparsi. Rinuncia a far qualcosa di meglio
tipo i soldi
le pulizie o inventari strategici.
Parole, con dentro queste mani che ben conosci
e scusa, per tutte quelle volte che l’uomo non migliora.

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PERLA

Ostacolo rimane l’aria sola
la piccola conchiglia di luna alla caviglia
la collana.
Più nuda di così c’è soltanto la memoria
le pagine del volto al catino
le tue tette, che oscillano come le altalene.
Nuda è tutto, un capitello al monte di Atene,
un rosso cena
Pompei la dissepolta, il sandalo dei frati.

La gatta che ti dorme alle gambe ha sette vite
mi calma come l’acqua che parla agli urogalli
l’acqua più nuda dei denti e delle vene,
l’acqua tua, fermata nel canestro del ventre.
Ventre nudo, frontiera di gendarmi scappati
e di bilingua
una per bocca e una per sesso, e mille ancora
sul nudo delle cose a cui riesco a dare nome.
Su quelle uscite senza un concetto dai mulini
mulini dell’Olanda, della tua terra nuda
del nudo delle piante che poggiano sul mare.
Un mare che fa sale più nudo. Nuda è tutto.

È carnevale a natiche tonde, coscia e zelo
se mai volessi un giorno dipingerti
è veliero, che non so governare e mi batte sulla testa
mi porta dove perla sepolta aspetta mano
gonfio di petto e occhio sicuro
per lei, nuda.

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IL CAPITALE

Come dei sugheri in un’acqua limacciosa
portiamo la carcassa di lucciole svanite
nel refettorio a posti spaiati;
un’anisetta, si fa quel tizio
e ancora non muore. Ha una signora
tutta per bene in cassa di mutua
via dei piedi, che ha trascinato troppo
senza portarli altrove.
A fare fanghi verso Betlemme, o qui a Sirmione
dove ti pompano in petto naftalina
mischiata col caffè delle cinque.
Poca roba, un capitale vivo che perde di valore
stesso dialetto d’uno del Congo
o Bangalore. Stesso colore d’uno che ha attraversato il mare
puleggia dell’oceano che ha fame
stesso odore, da ricacciare in fondo ai paesi
o sotto i ponti. Stendere a terra vecchi orologi
qualche legno, dalle sembianze culo di nera
tette allegre.
Stesso capitolo infame della guerra: un pane da dividersi in mille
e uno ride.
Quell’uno che decide del grano e dell’avena,
che mette sui portoni di casa due fucili
due cani con i denti a pugnale, un prete, un saggio.
Un fine intellettuale a cui mancano i bottoni,
nell’ultimo riquadro della camicia a fiori,
per dirci che è volere di dio
e si muoia in pace.

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SEMPLICE

Semplice come il tuo culo non c’è nulla.
E parlo del chiarore di cui sono capaci
le mattinate il cinque di maggio;
parlo ancora
del nodo nei capelli delle infermiere a notte
dei loro vestitini di carta, degli anelli
lasciati nel cassetto col gusto delle amanti.
Parlo del modo tuo di poggiarlo
di educarlo, di fargli governare la piroetta
e amarlo;
per quel mio praticare la scienza dell’attesa
toccando il tabernacolo
soltanto di parole.

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M’E’ CARA SOLITUDINE

M’è cara, solitudine, soltanto dopo amore;
come m’è caro il verde dell’acqua
e l’ogni vista, sul marmo delle belle fontane
dove china
mettevi bocca e gonna scozzese.
E me, vicino, nel tentativo poco riuscito di salvare
almeno i piedi dalle freddate
dai ricami, che intorno al labbro e fino ai tuoi nei
ti usava il sole.
M’è cara come certe conchiglie da non dire
quell’utopia che in mezzo alle gambe
altro che mare!
E che mostrare corpo regina!
Da un balcone, un parapetto
o altre prospettiche teatrali.
M’è cara come tua consistenza, come il melo
che l’ombra catapulta sopra la rete e il prato;
m’è cara come prima del sonno la tua vena
la pulsazione e il pari respiro,
la tua coscia
e l’ombelico che non sta zitto, neanche a notte.

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PIANURA

PIANURA

Vado e vengo,
come le foglie ormai lunghe del granturco.
In questa paludata campagna che è il mio mare
il mio pranzo, e la mia banda di musica.
Fa nebbia, sembra lo scampolo unto di un tessuto
lasciato a terra dal macchinista
eppure l’amo
la mordo come tutta la vita in brevi spazi:
lavoro, due negozi o tre in croce
qualche miglio
di secco quando inverno dà forti le pedate.
La chiesa che ci fai due scalini, e vedi i morti
di tutte quelle guerre chiamate tiro avanti.
Il corso d’acqua spenta che non vuole più piedi,
qualcuno che si bacia d’istinto, altri per noia.
Su tutto il passo duro ai pedali delle vecchie
il cesto per il pane davanti
loro niente
capiscono del folle del mondo
e neanche io.

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UN POSTO DOVE AVERE LA TESTA

Il novero felice delle licenze care
contempla le sue mani friulane sui bicchieri
intente a farsi scopa e monile su che resta
dopo la gola messa a tacere.
L’Osteria, maglia da poveri cristi, ombra e fischi,
la mescita coi suoi onorari
infissa, grande
a ricordarci quanto costasse poco il gusto
di stare qualche ora a guardarle gambe e labbra
con l’unico quartino ormai torbido e svanito
proprio nell’angolare migliore del locale.
Il corpo che intuivo, celato dal grembiule
aveva la movenza degli alberi di fiume
un cupo traversare di uccelli e nuvoloni.
Un posto dove avere la testa,
e poi finire.

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ACQUA DI PESCE

Credo scappato per sempre il tempo amico,
il fotografo
il campione.
Quell’osservanza, simile a un dio, che avevo in petto
di riportare il fuoco dei campi e ogni paese
al netto risultato di una poesia d’amore.
Tutto per me era acqua di pesce
dentro
fuori.
La bigliettaia un battito d’ali, il suo cappello
grembiule per le uova da conservare insieme.
Ogni svolazzo venti pernici sopra un tetto,
ogni rossore un grande futuro da bambino.

Dopo composto mangiavo due pugnali
palpavo rose avendole in mente; qui
sul muro, tracciavo cattedrali che poi avrei costruito.
Dopo composto avevo dei baci a compagnia
capezzoli di latte materno sopra gli occhi;
e te, da qualche parte a istruirti per domani.
Avevo colonnati per questa bocca amara
quel poco di indecenza che fa gridare i santi
gli oracoli e i distratti d’amore.

Tempo amico
capace a governare una stalla e una chitarra;
capace di mandare tre cartoline piene
del mio sudore a averti pensata. Tempo nudo
un materasso a prendere aria
una camicia, con dentro la cesura del seno tuo a conchiglia.
Una stazione venti parole, un posto vuoto
dove poggiare l’arte di un bel sedere antico
un’ora di eccellenza passata ad annusare
quel tutto che è capace una donna
meraviglia.

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CRONACHE OPERAIE

D’estate mi spellavo le mani in officina
lavori tristi, lavori da mezz’asta.
Le cose perlopiù lasciate d’altri
come pulire impossibili bugie.
L’odore della trancia, del tornio
l’acqua bianca.
D’estate lei aspettava che ritornassi a casa
di solito nell’angolo fresco, il più lontano
da tutta quella musica scappata delle strade.
Potevo mica prenderle il viso
o i suoi vestiti, dal nero che portavo alle mani;
ma era uguale
qui, sulle labbra, lei ci restava il giusto tempo.
Sapeva dei suoi libri, di camomilla
e miele.

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