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Archive for agosto 2012

LA DONNA DEL BAGNINO

C’è un’ora, verso sera
che l’acqua pare esausta.
Le rondini ci vengono a bere, ma veloci
che non so più se è vero o l’ho solo immaginato.

La donna del bagnino raduna le sue cose
ha il pomeriggio libero, al bar
lavora dopo.
Ha messo le ciabatte sul bordo della vasca
potrebbe fare il bagno, ma è fredda da paura.
Non ama il sole, solo il suo uomo
occhiali neri, la faccia da impastato
perché ha dormito poco.

La donna del bagnino somiglia alla mia donna:
si cambia con un telo davanti
niente trucco
non unghie pitturate, un sorriso naturale.
Si guarda tra le gambe poi impreca per i peli,
la pelle che col tempo fa macchie color oro.

La donna del bagnino va via, e la voglio ancora.
Non ha finito neanche il suo drink
come nei film;
saluta a malapena chi trova a proprio tiro.
È bionda naturale, almeno così pare.

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ACQUA NOTTURNA

C’è un grande disincanto nel dare acqua alla terra
mi sento anch’io germoglio
principio d’orazione.
Mi sembra di tornare al ciliegio, giù in campagna
dove succhiavo storie di uomini e fantasmi
di donne da marito sorprese alle fontane
con la sottana tutta in disparte dal piacere.
Mi sale il sentimento che pare un buon odore
un po’ simile al tuo, qui fuori dalla porta
seduta sulla soglia di casa
gli occhi a niente.
Perduta come il lento rumore di quel treno
diretto in Francia o in altri palmizi;
odore forte
di peli tra le gambe, di sesso chiuso a riccio.
Un sentimento di comunanza:
secco, anch’io, perisco senza l’acqua dell’esserci
di te
che scosti la mia schiena se troppo calda, annoia
deturpa, e fa morire quel poco d’ aria uscita
da una fessura della persiana
clandestina

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I PIOPPI

Come se avessi da salutare i pioppi
dimentico del latte ai fornelli
e delle calze;
che uscirne senza dolgono i piedi
lo so bene.

È stato il vento sopra il mobilio
porta aperta,
e sono ritornato giù al bar delle corriere
a far la fila per i biglietti
e per la Sisal.
Perduto alle sue tette da maschio, due nocciole.

Dicevo i pioppi ch’ero di strada, ora ricordo.
Al loro sposalizio di melma e di cascine
dita di terra lunghe
poggiate in faccia al sole.

Volevo salutarli più adesso
che ho capito
con gli anni come certe minestre fanno sangue;
e attrito nella testa
ch’è piena di sciocchezze
di inutili amuleti di vanità e progresso.

Volevo salutarli come saluto te
un bacio sulla spalla
e m’avvicino a Dio.

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SCARLATTO

Scarlatto mi ricorda il vestito che indossavi
mandata a fare compere come a una processione.
L’esibizione ha effetti collaterali:
dietro
il salumiere apriva coltelli disperati
su quella sparizione dell’uomo che era un tempo.
E come naturale che fosse, poi soleva
mettere mani in mezzo alle cosce alla sua donna;
fugando, mai li avesse voluti, altri pensieri
sconcezze che il suo dio non gli avrebbe perdonato.

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AL DUNQUE

Il sole picchia in testa,
sopra le gru del porto.
Qualcuno chiama questo: poesia
tramonto, sera. Crepuscolo ed incanto dell’anima.
Io no.

Io vedo solamente il cerotto dei sei anni,
Giovanni che tirava dei sassi come pugni
due bande tra le sponde di un fosso prosciugato.

Qualcuno chiama infanzia le storie della nonna
il letto della mamma
i panni ad asciugare.
Io vedo l’unto delle sottane, le unghie nere
dei padri fuori dalle officine;
le osterie, un vino buono ai contrabbandieri
il pesce fritto, comprato al mercatino
che neanche il gatto vuole.

Qualcuno definisce poesia le trecce e il mare.
Per me vale soltanto la donna del chioschetto,
le sue piadine fatte in mutande
generosa, di bocca
quando chiede da dove mai veniamo
col riso che le bagna la faccia
e tutto il resto.

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RUMORE BIANCO

Come capisco la brezza in mezzo ai pini
la sazietà che nasce dall’acqua
questa cura, per le tue rose vergini e secche.
Amo la sera,
le cose che si tolgono scarpe e fanno pace
i nidi riabitati, le concessioni al dunque
domani per i figli che annaspano al futuro.
Sedere sulla soglia di casa e udirne il sangue
i legni delle travi, le umili vetrate;
il desiderio ultimo che venga pioggia, un poco
su quelle ragnatele e le erbe già corrotte
sopra il rumore bianco di tempie ora snudate;
sul corpo che mi sento fratello mai arrivato
memoria di gasometri
e di case cantoniere.

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E ALLORA RIDO

Mi viene una manata alla testa
se ti vedo
scarabocchiata come una donna dentro i quadri.
Mattina presto,
senza le luci artificiali,
soltanto l’albumina che fa la pelle nuda.
Mi viene un morso al labbro di sotto
e poi a quell’altro;
mi pare di trovarmi al museo, il tempo fermo
sul culo di Paolina o dell’Ermafrodito.
Con la mia tazza ancora da bere
il sangue dolce, per via delle carezze di ieri.
E allora rido
ma non come le volte che siamo in compagnia;
io rido perché parla il mio corpo in questo modo
quando non sa che dire
se dire è troppo poco.

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MADRE OPERAIA

Cercavo di capirti, come una chirurgia
di solo le parole importanti; forse quelle
che avresti messo in mezzo alle righe.
E stavi in piedi
quasi a disturbo recassi l’esistenza
in mezzo a una masnada di medici e infermieri.
La giacca abbottonata nel caldo innaturale
di una stanzetta piena di sedie, tele morta
fermata sul canale delle idiozie veloci.
Le scarpe delle belle occasioni, sopra il labbro
i segni di una notte agitata.
Ancora vita
non ti concede freschi respiri
il dondolare, come di foglia in petto di luna
niente pace
né rima di fringuello in stagione delle rose.
Ancora la sirena scandisce l’ora e il turno
per te, madre operaia
superstite di dio.

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NESSUN PUDORE

Nessun pudore abbevera
quel sesso tuo dormiente,
né vanità sprigioni
tu, inerzia delle mele.
Vagito d’ombra quieta
che smuovi ora che sogni
e ti confondi, lieto spettacolo, al ramarro.

Nessun pudore
magra, salata
benedetta. Lì tra le acque di nascituro
porta oscura
battesimo dell’uomo che perde la sua infanzia
Giordano e Monte Ulivi
la croce delle cosce; il labirinto e poi il Minotauro.

Creta e Rodi.
Le case di calcina con dentro donne azzurre,
con dentro te che hai labbra di menta
ed altre ancora, sottili
come solo il geranio più novello, come le note di balalaica
come il nardo, la pelle delle nespole
la spina delle more.

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