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Archive for febbraio 2014

PARABOLA

C’è uno, là seduto
il figliolo sulle gambe.
Lo dondola
che sembra Venezia e il Canal Grande
questo tragitto nome da industria.
Lui è mio padre
è il padre d’ogni uomo che cerca di salvare.
Ha pane nero in mano
e racconta storie strane
ti dice di guardare l’aereo, poi ci prova;
ti sfama quando invece vorresti solo il buio
dormire fino al duemila e venti.
Lui ti sfama
si toglie un pezzo dell’esistenza
e invecchia presto.
Non riesce quasi più a fare il dondolo
è già tardi.
Ha un po’ di barba bianca a coprirgli la paura.
C’è uno, là seduto
ha fatto un figlio bello
da pettinare il sabato sera. Ora lo guarda.
Poi guarda il finestrino girato verso il Duomo.
Ti dice – lavoravo quaggiù,
ma è un’altra storia.

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I CONTI NON TORNANO

Si è soli nella propria stanzetta,
questo è certo,
si è soli in una maglia sudata, nel dolore
nel fatto che ingoiare è un’impresa eccezionale.
Si è soli nel comprendere il capitolo morire.

È stato l’altro, ieri mi pare, è uscito il sole
dopo una settimana di pioggia
ed hai sorriso.
Sembravi Galileo e il telescopio
o Isaac Newton;
sembravi penetrare le leggi di natura
come un bambino un cesto di dolci.

E hai ringraziato
col tuo silenzio estetico e asciutto.
Hai ringraziato
ma dopo pochi istanti maledicevi il corpo
le ossa in carta pesta, la carne decaduta.
Maledicevi l’acqua ai polmoni
il sangue denso
fermato ai capillari dei piedi, alle caviglie.

Maledicevi il pane perché non sa di niente.

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LE BUONE INTENZIONI

Dimmelo ancora una volta
e avrò più forza.
Che la minestra è pronta e fa buio per la strada.
Che hai già firmato il voto di ieri
e c’è la chiave, di sotto lo zerbino
e non lo sa nessuno.
Avrò la forza d’urto del vento
e quella lieve, dell’erba che si oppone
di lingua e spalla nuda.
Avrò la prima notte di nozze, me in pigiama
che sbuccio la sua musica sferica.
Avrò forza
di prenderti allo sbarco di Normandia
e portarti, a bere qualche cosa in un bar
o in trattoria.
Dove non sei capace a star ferma, e fai la pila
di piatti e tovaglioli
posate a metter va.

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INTERVALLO

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BLACK OUT

Che lei, alla luce elettrica
è un pesce senza spine.
Fiorisce d’ingiustizia alla nuca
troppo bianca. Si sdraia pure l’ombra
con fare irrispettoso;
una svogliata mano di carte allatta il ventre
e l’inguine è un sogghigno rapace.
Tutto questo
per dire solamente che Cassiopea mi basta
e il dito nella piaga le provoca le idee
le facce della bella bambina
pane e burro.
E ancora tutto questo
per fare una chitarra, con l’orto dei capezzoli
e un salice.
Sciarade, un cruciverba senza caselle, odori forti
di giubilo e di pesche nel vino.
Questo è quanto.

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IL NUOTATORE

Non c’è che porre i sandali a lato.
Via la maglia, la fredda concezione di sé
entrare e basta.
Come nel fatiscente candore della sera.

La testa sotto l’acqua si spugna di leggero
diventa un prato pieno di rose.
Tu, e poi Eva.
Un utero e il suo oppio d’amore, uccello nudo.

Non resta che lasciarsi di lingua
assaporare
lo spazio tra la vela e lenzuola d’alto mare
il sibilo sinistro che fa la pelle tesa.

Librarsi, come un coccio di stella
punta fine;
il seme penetrato nell’orbita e cresciuto
poi levigato e infranto, come la seppia bianca.

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PICCOLE GIOIE

È il gusto delle piccole gioie che mi sostiene.
È il fianco donna delle alberate, il rosso vivo
che metti nel bicchiere le sere che sei calma
e senti rinvenirti sui seni il mio lavoro.
Il turbine di mani e parole, tanto care
che già dal pianerottolo prendevano coraggio.
È il canto della bocca piccina che si sgrazia
la perla di sudore che t’è venuta in fronte
dal tanto faticare a piegarti, dal nudarti .
come volessi già un’altra pelle, un’altra vita.
È il gusto delle piccole gioie, te l’ho detto.
È l’opera dell’arte che metti in scena sempre
quando al mattino posi sul letto una collana
un paio di collant, e poi guardi.
E aspetti il treno, del corpo mio che mette il sigillo
e dice, si.

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