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Archive for ottobre 2015

DUE COME NOI

Tu non lo sai dei cantieri che attraverso
del male sulle dita
e le scarpe strette a sera.
Non sai delle paure vertigine, dei mostri
che stanno alle fermate del tram
del vizio assurdo, che hanno dei liquori al mattino.
Non sai niente
di tanta umanità contraffatta
delle donne, a cui vorrei toccare i capelli
e profumare, con le mie storie da pellicano.
Tu non sai
che dentro sono piccolo e inerme
un po’ arrabbiato, un po’ vada via il culo
a sto mondo. O forse sai
e provi queste pene anche tu, là dietro i vetri;
la mano che saluta tra i neon
le sigarette, e le infermiere in pausa caffè.
Lo sai e stai zitta, non sprechi più nemmeno
un centilitro di aria, di noia, o pura rassegnazione.
Siamo storie
di gente abituata a non ridere, a pulire
tenere dentro polvere e fiele
e via, menare
tu con le calze elastiche e dure, io una benda
su tutto ciò che duole
e che dovrà passare.

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LIBRI

Abbiamo il rosa in linee di cielo, siamo carne
e femmine fin dentro il midollo.
Perché amiamo
il parto naturale del giorno
e l’acqua in bocca. Dei tanti secretati piaceri
siamo aria
il pentagramma pudico e lento dei colombi
la sega tra le foglie dei corvi
siamo aironi, tra le corsie che vanno
da ovest a un bel nulla.
Siamo le case di vetro che abitiamo
sentimentali fino alla nausea
un po’ crudeli, coi figli a cui lasciamo
un pianeta spazzatura.
Siamo la voglia matta di averci nella bocca
di deglutire e poi rigettare;
siamo vuoti, se pieni disertiamo fioristi e bei balconi
biglietterie e gelati alla crema. Siamo libri
mettimi il dito alla fronte, sei arrivata
dove il protagonista ha un infarto. Sei arrivata
dove la madre ha un collo di volpe, dove il padre
la fa nei pantaloni e poi piange. Sei arrivata
dove somiglio a un uomo al trapezio, o sulla fune
sei arrivata
dove una margherita si poggia sopra il nome.

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TRAVEL

L’eccitazione mi prende, dei virgulti
schioccati ad aria fresca dai rapidi sul due.
In fondo s’appartiene alla terra, ad ogni piana
che fa ballare l’occhio senza destinazione.
Non nome di paese conosco, ma i colori
gli odori delle tante pignatte, odori donna.
E processioni lente di luce, in ogni strada
di mondo tutto piatto o rotondo
non importa.
Soltanto qualche acqua salata le interrompe
l’agitazione dentro lo stomaco, il sapere
che in ogni letto dorme una Musa
e forse piange
poeti sconosciuti e fratelli, amori grezzi
sui loro cavallini di nuvole argillose.
In fondo s’appartiene alla gioia, all’oratoria
che fanno le bandane di uccelli sopra i fili
al rosso nascimento del sole.
A questa idea
che spenta l’automobile ci sia per noi qualcuno
le braccia aperte il giorno e la notte
a farci bene.

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CHILDREN’S SONG

C’è poco di dissimile tra me e quei ragazzini
che tirano le pietre per farle rimbalzare
dove la terra mostra il peccato, il nudo antico.
Sono capaci ancora di ridere per nulla
di correrci sporcandosi belli;
hanno le gambe per dio!
Le bocche acerbe, le cattiverie che si perdonano
e il futuro, davanti
come gli alberi e i sogni. Io li amo
col loro chiasso e il collo lavato
sono me, l’ulivo che tintinna nel vento
lo ossa molli, e il fiato del trattore che impregna.
Io li amo, nemmeno li saluto e conosco
ma è la vita, è l’erba più ostinata e caparbia;
l’acqua chiara
venuta dalla roccia con forza e prepotenza.
Li amo come gli anni già camminati interi
come quei fazzoletti di mamma per il pianto
la volta chi ci nacque un bambino, od altre ancora
che portavamo a casa una sciabola di mare
dentro una Polaroid da due soldi. Sono noi.

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POSTFAZIONE

Più del fragore dei corpi, più del fuoco
della fornace in libido scossa;
più del tempo
nell’agile battaglia intrapresa
più del mostro, che dentro i volti dopo ci viene
è questa resa.
Il fragile momento d’una carezza sola
di schiena, o per trovarti nel buio
e dirti – ecco, ci sono anche soltanto per l’ombra
per l’odore, per la genuflessione all’amplesso tramortito.
Per darti la mia spalla egocentrica, e il mio petto.
Ci sono per le lunghe rinunce, le paure
per quando costruiranno qui intorno nuove case
e tutto il prato avrà scavatrici
e nulla dopo, ci rimarrà dei rossi orizzonti
delle viole, venute su col ritmo del sole.
Ecco che sento
se l’audizione tu mi concedi
un po’ sul pube, e un po’ sul cuore quando fa il matto
e poi s’addorme

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ZOOM

Abbracciami.
E poi restaci a lungo, fammi il verso
delle poiane quando si abbassano
respira.
Dentro la bocca mia
che ho una voglia disperata.
Ritornami le fragole al piatto, le tue mani
sotto questa camicia un po’ lisa, tocca tutto
ché vivo di centigradi e pelle
di paure
notizie e delicate carezze.
Dai, sorridi.
Hai il genio dell’amore nel volto, io un po’ meno
dentro il sudario di questo corpo
e ancora vivo
di slanci pressappoco precisi. Amo averti
da sempre come un seno da latte
una pianura, per stendermi e sentire i miracoli alla schiena.
Se vieni bene dentro le foto
lascia tutto
te ne farò duemila vestita, ed una sola
senza le bende e i piccoli ormeggi
senza niente, che possa ricordare la morte
i suoi violini, le campanelle della creazione
qualche cane
lontano mentre abbaia alle onde.
Stai vicina.

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IL TEMPO TE

Tu mi conosci il triste, il simpatico, l’asceta.
Il giovanotto piede per terra ad un livello:
il treno che aspettavo da tempo porta inganni
un carico di grano e petrolio, pendolari
le labbra sopra i vetri a scacciare la sfortuna.
Tu mi conosci un poco sdraiato, magro a volte
da far paura, l’asta diritta, l’hai toccata
decine di carezze negli anni. Mi conosci
varcando la decenza di donna navigata
quando mi allaccio le scarpe e metti l’ombra
a incidermi la lingua dove è più secco e nero.
Tu mi conosci come un belato, un vetro rotto
la spogliazione del melograno. Piccolino
in queste mani tanto scorrette quanto pie.
Mi conosci
la schiena e quell’odore di stanco che perdoni
conosci le stranezze del tanto essere altrove
il letto vuoto, il frigo che piange
i trentatre. Gli anni di Cristo che stiamo insieme.
E io di te, conosco carta e penna, le orecchie, le manie.
Ti so le gambe larghe, il dolore, il terital
di certe feste poi andate male. Il tempo mai
di far quel che ti piace, che ami, il tempo te.
Io ti conosco il nome, la storia, geografia
di meno dentro il fatto cardiaco, dentro il blu
del sangue nobiliare che hai. Io so di te
che a viverti poi senza sto bene per un po’
ma poi mi arriva sempre il deserto, arriva un tram
per l’ultima sua corsa nella periferia.

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LA FIORITURA NELLE NARICI

Adesso, quando tocco il tuo seno
sento l’erba
che prese le mie grazie più acerbe;
ed un fossato, il primo sole a lingua di bue sopra le spalle
gli asciugamani stesi a sposarci con la terra
e il cielo al mese della Madonna.
Maggio pieno, la fioritura nelle narici
uccelli bassi
confezionati sopra la piana. In fondo il giallo
della città veloce e disfatta.
Nuova vita
è quella che ti tocco allo sterno
e suono cetre, papaveri sì dolci e sottili
che io piango
a farmi grano nel mare grano.
Piango e rido, di tanta tua letizia nascosta
e del precoce, poi dipartire al frutto del sonno.
E mi commuovo
a quella idea dei nostri vent’anni, dissipati
riempiti solo a miele e cannella
vivi ancora. Come le braci al soffio di petto
vigoroso, un canto disperato all’unisono
d’amore.

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