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Archive for novembre 2012

E NON NE SANNO IL NOME

Un tempo, sbevazzare era tutto quel che avevi.
Un Cine,
qualche volta in un anno,
sedie al muro;
l’intonazione lenta e precisa degli anziani.
Un tempo le comprasti un vestito coi risparmi,
teneva dentro i fiori di scorse primavere,
l’elastico nei punti più giusti
scollature
soltanto nell’abisso del tuo pensarla nuda.
Un tempo le pulisti i ginocchi
e altre notizie:
un cioccolato bianco dal resto dell’Europa.
Il mondo era un oceano di carta scritta, densa
e noi gli analfabeti scappati da un cortile
per annunciare d’essere sparsi in mezzo al fieno;
su un letto di granaglie
alle tette delle stelle.
Un tempo che risorgere non ci mettevi niente
bastava del sapone avanzato
un pettinino.
Il suono sdolcinato di un sabato in balera.
La bicicletta a braccia di melo
in corpo il fuoco
che cresce nei ragazzi,
e non ne sanno il nome.

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CAREZZE

Parliamo di carezze,
nascoste a volte in tono di voce,
in comprensione
in vicinanze più o meno intime.
Smodate
o solamente un poco accennate.
Si, carezze
tremori sulle tempie
calore sulla nuca; due labbra
fatte a indice e pollice
altre labbra
le scaturite dopo un sorriso
o un pianto lungo
venuto da lontano
profondo
dov’è buio.
Dove dimora il bimbo che ha fame
che ha paura, il bimbo solo
in strada di bosco
il bimbo ucciso
deriso e maltrattato
il bimbo nudo.

Parliamo di carezze
di acqua smossa
chiara.
Dei cerchi che produce il tuo dito nell’affondo.
Del suono che fa il frangersi ai bordi,
un quasi niente,
ma grande nelle orecchie che tengono carezze.
Così che un oratorio di liuti sembra il giorno
un posto di tranquilla esistenza.
Due carezze.
E il volgere notturno diventa un volo amico.

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MIGRAZIONI

Conoscono di certo la direzione, loro:
stanno tracciando forme di esagono
oltre i fili
l’indecisione prima del giusto
del per sempre.
Vanno lontano
e questo lontano è un fatto antico
un fuori dalla vista
e da certe concretezze, che amiamo
per mancanza di fantasia e dorsale.

Vanno graffiando tutto l’azzurro,
come me,
il giorno che la neve improvvisa aveva scisso
le cose scure e piene, da tutto il vuoto in cielo.
Avevo scarpe poco indicate
e scrissi il fango
fino alla consistenza del piede
fino al freddo;
alle suppliche di mamma perché pulissi bene
quel patrimonio un po’ elementare, ma costato.

Vanno lontano, loro
e non toccano le cose.

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UN EDEN VERO

Venivo,
intonacato di fresco
germogliato.
Un cesto di ciliegie da cogliere, lì a breve.
Venivo per accedere a un posto
tra le figlie
tua madre, sullo stipite, e i suoi punti di domanda.
Tuo padre da cui hai preso quel fascino orchestrale.

Venivo per capirci qualcosa
e darti i giorni
la paga del soldato
lo straccio e l’acqua ragia.
Il buffo che si da ai ripetenti, bocca larga.
Come se l’ottimismo potesse più dell’ago
di tutta quella chimica in corpo
del veleno.

Venivo supplicando parole alla tua donna
cercando in lei quel fulmine buono a farti Adamo;
la costola prestata e lo sputo.
Niente mela,
né serpe per la tua tentazione.
Un Eden vero.
Fatto di minestrina la sera
e un libro in mano;
di un appisolamento improvviso sul divano.

Quel farsi amore poco acrobatico magari
ma buono, per i giorni a venire
contro il male.

In memoria di Rubens

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LENTO

Lento è quest’anno emotivo:
ci siam visti
toccati e fatti caldo a vicenda
lentamente.
Come scoprissimo ora gli anni ’20
i balli che scintillano tacchi e perle insieme.
Come scoprissimo ora corpi in vetro
la loro trasparenza gentile.

Tutto dentro
ha meccanismi fatti di regole e carezze
di posizioni privilegiate
di tensioni
come allacciate braccia sugli alberi novelli.

E lento è questo ancora precedersi di un poco
pensare insieme a quanto può essere sincero
il mondo visto mentre la pioggia lo consola.
O quanto predicato può essere ascoltare
il semplice pistillo che chiude quando ha freddo
la bocca che si apre per dire
– Andiamo a casa.
Come temessi tutte velocità dei lampi,
le nuvole straniere e le loro facce tese.

Così che, lentamente, potremmo bere infine
un ultimo bicchiere prima del sonno audace
del lento appiccicare le mani sulle nuche.
Partecipi coscienti del buon odore uscito
dai nostri marchingegni del cuore.

Lenta, e mite
tu chiudi la portiera:
ti faccio un complimento
così come più lento ti ignoro, certe volte
che in specchi d’acqua vedo soltanto me
e un sapone, un obolo di sangue e saliva
che m’allatta;
e tutte le giunture degli occhi
affaticate.

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FARE L’AMORE

Faccio l’amore se ti saluto bene
se mi interesso ai tuoi turbamenti
forse ai guai.
Se compro fiori per il salotto
se sparecchio
se scrivo la mattina che fuori è ancora buio,
e salgo col caffè bene attento a non fermare
la nave tra le nuvole del tuo respiro lungo.
Faccio l’amore quando mi siedo
e dico – bene
rimane qualche cosa da fare, ma c’è tempo.
Quando mi lavo il viso
e mi chiedo se l’odore
del tanto lavorare non ti allontani, e ancora
faccio l’amore quando telefono
o se rido, se mi commuovo senza bagnare la poltrona
senza macchiare maniche e collo di camicia.
Quando mi scuote il corpo
e mi benedice il sesso, la musica ascoltata
nel fondo dell’orecchio.
Quando mi fermo un poco sui vetri della casa
e osservo la vicina che stende, quella mano
che tiene il lembo della vestaglia come un figlio.
Faccio l’amore quando mi fermo per la strada
e metto un euro in mano a quel tale tutto sporco;
quando Nicole mi dice del matrimonio in patria
a Bucarest, lo scorso natale
e che ha comprato
un letto per sua madre, che piega
ed è un divano.
Faccio l’amore quando non taglio i miei capelli
e cerco i libri della mia scuola
quando annoto
sopra un biglietto cose importanti, o la tua spesa.
Quando porto mio padre nei bar del centro
e pago, l’aperitivo come lui un tempo
a me un gelato.
Quando gli leggo gli estratti conto, e a mamma il piano
che ho preparato per i miei figli
quando premo
quel campanello dodici volte
e poi ringrazio
dei pomodori e tutta una vita di lavoro.

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