Avessi visto il tuo corpo nel mantello
ne avrei sottratti due lembi, per me solo.
Uno per poche vergogne, l’altro al viso:
per occultare lacrime e brividi; stupore
davanti al fine vita esibito.
Non è stato, il caso ci ha voluti distanti
pena il morbo. Il caso ci ha voluti
qui ancora a conversare, le quattro di mattina:
tu indietro qualche anno
io parlo con un morto.
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Non che calciassi, in effetti
granché bene
con una mano impegnata al mozzicone
e i piedi come a lisca di pesce. Ma ti amavo.
Amavo la pazienza che ci mettevi dentro
quel ciondolare un poco la testa ad ogni rete
e poi il sorriso a denti spaiati. Eri mio padre.
Le braghe fatte su alla caviglia, scarpe nere
per nulla adatte e comode al patibolo dell’erba.
Oh, mi amavi!
Ero tuo figlio, il più abile a pallone
appena mezza spanna più alto dell’ortensia.
Il tuo bagaglio magro, scattante come lepre
e fragile come camomilla.
Questo è quanto.
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È nell’armadio vuoto che assenza si fa dura
materia evaporata, rimbalzo delle voci.
Appena ieri un abito scuro, vecchia moda
odor di naftalina e di carbonaia insieme.
Bisognerà scostare un poco il lumino
per il nome, l’immagine è felice:
è in quell’Osteria paesana.
Io ero accanto a te e ti consigliavo il cibo
curiosa l’ironia: da piccolo tentavi
di farmela nascosto
con un pezzetto in mano.
Tra una gugliata e l’altra una ragnatela in brina:
avrai del freddo, chiedo, in sto letto di cemento?
Lassù, sopra la piazza del capo, hai una risaia
un lucido vigneto di acqua e pelle chiara.
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Io non ho segni delle tue cinque dita
ho solo il solco d’una carezza piena
il gesto del boccone tentato, e la dolcezza
che un contadino mostra alla Terra.
Padre antico,
ciò che sei stato è il coraggio del tuo pruno
divelto in una notte di pioggia
e poi rinato.
È nello spiazzo liso d’un casolare infermo
sfibrato come legno di fosso
e in queste mani, del tutto inette
messe al tuo pari.
Mani mie, tenute bene in caldo
dai tempi della scuola, e piene della grazia
che hai tramandato intera.
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A mio padre Angelo, a 3 anni dalla scomparsa
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