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Archive for febbraio 2024

VITA, MORTE E NESSUN MIRACOLO

Le donne hanno legami precoci col granturco

in questi posti pieni di vento

e di campagna.

Veloci s’apparecchiano

l’amore schiena a terra;

la vipera bagnata del sesso le colora

che ancora le orazioni si dicono la sera.

Maria dal suo negozio dispensa drogherie

saluta da un dialetto ch’è musica

e un’arancia, là sulla porta succhia nel sole.

Il giorno muore, le donne al camposanto

vanno con scopettoni, le vedove sono tulipani.

E tutto è mondo, il prete, la cuccagna

la mite confessione,

d’aver avuto audaci pensieri

e dita ammodo.

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TUTTO QUI

Quante parole difficili incontrate

concetti srotolati come tessuti in pregio.

Quanta freddezza non dire solo

  • Amore, ho fatto per stasera

qualcosa da mangiare, e poi

riposto in tutti i cassetti le tue cose.

Là c’è in penombra il tuo letto del riposo

il libro che t’ha attesa, paziente.

Anche le rose.

Quanti bei voli pindarici, e maestri

sciamani professori del bello e del diletto.

Quanto calore posarti in grembo il capo

a fare del silenzio il poema meglio atteso.

Sentir salire afrore di fragola, sapone

il fresco del pulito che hai sempre reclamato.

Giocare con le dita su qualche scucitura

e dirti – Bella, andiamo a far notte.

Tutto qui.

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10 anni senza Francesco

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DONNA SOLA

Proteggo lo sgomento

che metti al trattenermi:

hai quasi tutta l’unghia

piantata alla mia carne;

come un naufragio di sonno

di scogliera. Non ho che corde

di brina all’occasione,

la paglia degli scarti, ma io

la so valere. E t’offro il corrimano

peloso, come un tempo, faceva

il padre mio sulle scale del fienile.

Avrei saputo il peso nell’aria

degli uccelli, soltanto liberando

fiducia, come un cieco, che più

non teme il buio, poiché venuto luce.

Così ti chiedo quota ed eccesso

di svernare, di risalire il monte

della tua infanzia prima. Nel tempo

in cui nessuno moriva, e le cisterne

s’empivano di pioggia per quattro api

a bere. Proteggo la mia pace terrestre

ho fatto sangue, intorno alla tua presa

tenace, un segno scuro, che ora

più gentile risolve; un morso breve

come alla prima mela, di te

la donna sola.

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IL TELEGRAFO DEL SONNO

Avessi visto il tuo corpo nel mantello

ne avrei sottratti due lembi, per me solo.

Uno per poche vergogne, l’altro al viso:

per occultare lacrime e brividi; stupore

davanti al fine vita esibito.

Non è stato, il caso ci ha voluti distanti

pena il morbo. Il caso ci ha voluti

qui ancora a conversare, le quattro di mattina:

tu indietro qualche anno

io parlo con un morto.

****************

Non che calciassi, in effetti

granché bene

con una mano impegnata al mozzicone

e i piedi come a lisca di pesce. Ma ti amavo.

Amavo la pazienza che ci mettevi dentro

quel ciondolare un poco la testa ad ogni rete

e poi il sorriso a denti spaiati. Eri mio padre.

Le braghe fatte su alla caviglia, scarpe nere

per nulla adatte e comode al patibolo dell’erba.

Oh, mi amavi!

Ero tuo figlio, il più abile a pallone

appena mezza spanna più alto dell’ortensia.

Il tuo bagaglio magro, scattante come lepre

e fragile come camomilla.

Questo è quanto.

********************

È nell’armadio vuoto che assenza si fa dura

materia evaporata, rimbalzo delle voci.

Appena ieri un abito scuro, vecchia moda

odor di naftalina e di carbonaia insieme.

Bisognerà scostare un poco il lumino

per il nome, l’immagine è felice:

è in quell’Osteria paesana.

Io ero accanto a te e ti consigliavo il cibo

curiosa l’ironia: da piccolo tentavi

di farmela nascosto

con un pezzetto in mano.

Tra una gugliata e l’altra una ragnatela in brina:

avrai del freddo, chiedo, in sto letto di cemento?

Lassù, sopra la piazza del capo, hai una risaia

un lucido vigneto di acqua e pelle chiara.

*******************

Io non ho segni delle tue cinque dita

ho solo il solco d’una carezza piena

il gesto del boccone tentato, e la dolcezza

che un contadino mostra alla Terra.

Padre antico,

ciò che sei stato è il coraggio del tuo pruno

divelto in una notte di pioggia

e poi rinato.

È nello spiazzo liso d’un casolare infermo

sfibrato come legno di fosso

e in queste mani, del tutto inette

messe al tuo pari.

Mani mie, tenute bene in caldo

dai tempi della scuola, e piene della grazia

che hai tramandato intera.

*****

A mio padre Angelo, a 3 anni dalla scomparsa

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LASCIA ANDARE

La mia amata ha le scarpe sporche

e ride, cammina in mezzo all’acqua

perché non gliene importa.

L’amata mia

non è una ragazza, ma lo è stata

conserva una molletta ai capelli

e li colora. Col tempo

ha maturato una timida avversione

per asole, bottoni, per stringhe

e per cerniere. Per tutto ciò

che complica ed è inutile alle mani.

Lei nuda aspetterebbe anche il tram

e a notte, me, con i miei guanti in seta

per farle confusione. L’amata mia

ha un cespuglio tra gli inguini

che cura, lasciando a un volo d’api

il racconto dell’estate.

È come la lavanda che prese tutto il cielo

vicino al cancelletto,

sul retro della scuola. È scura

che par chiesa in vigilia d’orazione

il torbido di un fondo di pesci gatto e rane.

L’amata mia è villosa, e mi sale sulle piante

ha l’apertura alare di Amelia sopra il mare.

Ma devo avvicinarmi e sentirla respirare

per dire a questo cuore fanciullo:

lascia andare.

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POLLINE

Sogno talvolta il colore del ginepro

la cella dei miei polsi dove recludo il sangue.

L’impronta sopra l’acqua che non affonda

e trema; dall’emisfero in ghiaccio perenne

fino ai mirti, all’isola del vento,

delle miniere spente.

Sogno talvolta di stringerti nel vuoto

di dare consistenza al viziato di quest’aria.

Soccorrere la neve che manca come il pane

e te, che a mani nude ti graffi sul cancello.

Sogno talvolta che polline sarai

e che berrai dal bosco dei lecci il miele antico

il soffio delle api che prodigano intatte

le regole del fuoco di vita, sempre e sempre.

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