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Archive for aprile 2013

BLUES JAZZ FUSION

Le tre di notte
tutto è un megafono, e scintille.
Le chiavi sono missili in petto:
gira
gira.
In questa palafitta sul buio sei falena
le ali un po’ bruciate dal tanto aver creduto
che poi, tornando presto
portassi con me un lume.
La spiegazione a tanti ricordi
a tanti baci
che mai ci stancavano di riprodurre, uguali
eppure mai noiosi o scontati.
Belli, e forti
col pizzico alla guancia o le mani mezze morte.
Coi diti dietro il nudo di nuca
un po’ ignoranti: che poi lo so
che mica si scrive così i diti.
Ma rende bene quel farfugliare,
quel frugare,
quel disperato senso di penetrarci tutti
di avere odori uguali e diversi
di impazzire
di una felicità mezza vacca, e mezzo fiore.

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A volte,
basta un sasso sentito alla persiana.
L’amico mio chiamava così.
A volte un cane
segnale che qualcuno s’è alzato presto
ancora, e ha fatto cigolare il cancello dietro casa.
A volte sono solo le tue ciabatte nuove
l’unica cosa, ora, che indossi
a dirmi vivo; felice non sia il sangue dei vinti
quel che sento
pulsare e attraversarmi le tempie come un ago
un fuoco nel pagliaio, un treno contro il vento.
A volte è il gocciolare sopra le foglie secche
o il labbro di un compianto che schiocca sul bicchiere.

Mio padre ci metteva il boccone della staffa
quello che raccoglieva dal piatto ultime grida.

A volte è il pesca/noce che s’apre
o la cerniera, del tuo tubino tanto invidiato;
la manciata, di nei che s’attorcigliano al freddo.
A volte carta.
Giocata per far briscola, o soltanto per partire.
A volte è solamente il discorso che fai a notte
il tuo parlare senza dialetto
mentre sogni.
E chiedi aiuto come non fossi lì vicino.

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Consolazione ricca
la casa col bidet;
la stufa messa nella soffitta
il vino in fresca.
Ho ancora quella foto delle tue mani accorte
sul bordo della torta comprata a inaugurare.

Me sullo sfondo come una foglia sul sagrato.

Il dente d’oro acceso alla bocca ti smussava
le atrocità che t’eri incollata:
altrove arresa, tra un’acqua alta e mani sul culo di qualcuno
che per chiamarti donna faceva gran fatica
abituato come son usi poi, i padroni
a metter nella paga il diritto di toccare.

E mi ricordo tutti quei sabati più pigri
tirare, lucidare, quel pavimento d’olio
con le pattine a guisa di porta
luce poca, là nel tinello pronto per gli ospiti.
Il profumo, che solo certe rose potevano emanare
del più pulito albergo dei poveri.

Mia cara
come vorrei tornare un istante a quelle ore.
Cambiarti l’acqua e prenderti, giù
lo spazzolone .
Fare dei figli il gesto migliore,
di capire.

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VENTO E SPUMA

Non è che un grano di miglio
là, sortito
fuori dal lembo corto e incapace.
Il suo bel seno
mi dice cose fitte ed acerbe
e mi commuovo
al giungere di quella vampata tanto cara
che fa di me una canna di fiume
incontrollata.
Felice nel suo esistere solo,
vento e spuma,
la sagoma di una che nuota
e sono vivo.

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LA NOSTALGIA

La nostalgia è qualcosa di rarefatto,
e unto.
Non è che deve metterci il triste ad ogni costo
ma viene, come quelle pellicole ingiallite
fatte asciugare dopo lo scatto;
e stavi al mare, mattina presto
tutti che dormono.
Può darsi
che in fondo sia soltanto la voglia di un bel bagno
tra i sassi di un fondale
di un metro e mezzo appena.
La nostalgia di quando nuotavo intorno a te
che andavi giù e nemmeno gridavi
ché sapevi
sarei arrivato con le mie braccia e una promessa:
sposarti come fanno le margherite a maggio
aperte, che gli ride la bocca
e tutto il corpo.
La nostalgia è una pasta alla crema
il compleanno, il nonno
col suo dente che pare un’alpinista.
Il cappello sulla testa anche quando mangia
il nero, sotto le unghie dopo il lavoro.
È un gran casino, la nostalgia se viene
e ancor peggio se non viene;
perché se hai neanche quella di dentro, sei finito
e possono bruciarti le dita coi cerini
che neanche te ne accorgi
e non te ne importa niente.
La nostalgia c’ha i saldi, come le scarpe e i frigo,
ci sono volte che ti cattura ed entra in casa
come la terra quando c’è vento
come i semi, la spore e tutti i pollini
che fanno la tua faccia, un secchio pieno d’acqua piovana.
Brutta bestia
la nostalgia dei fulmini e dei temporali, e peggio
quella dei morti ancora che parlano, le notti
che vengono a trovarti come se fossi Cristo:
con una mano ed una parola
tutti in piedi!

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BALLATOI

È qui che t’accoglievano le mani alla ringhiera
le tende verdi a mezzo portone
e le minestre, sul fuoco
per i figli dal turno alle officine.
Qui dove il sole serviva per cucire
con l’uovo nella calza, il ditale
il filo in bocca.
Qui dove il calice rosso aveva il segno
dell’ultima bevuta
della benedizione;
di quattro cose dette a rimando all’esattore.
Qui dove i lazzaroni dormivano di giorno
tirandosi il lenzuolo sul culo sempre nudo.
Qui le domeniche coi rami dell’ulivo
messi sui fili come asciugassero i peccati.
Qui l’urlo per le cose scordate
per le scale, dove i bambini stavano all’ombra
l’ore troppo. Trotto taglienti per la calura
l’ore zitte.
Ché alcuno ci provava da solo l’agonia
quel gran patire il viaggio d’andata
e così sia.

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SALVIAMO QUESTA NOIA D’AMORE

Salviamo questa noia d’amore, fiore muto
fiore di brina al pozzo d’inverno.
Un letto avorio
ho qui per Marilena Felicidad, la sposa
un letto avorio
per quelle titubanze di Irene, di Estrelita.
Giochiamo alle sottane più cieche
a quando solo, tiravo i cassettoni di mamma
e le collane
venivano a mancare al piacere della sera.
Giochiamo nell’ottobre
che il sole morde i vetri
e per il pavimento una rupe vedo ancora
dove sfilarti tutte le calze nel cadere;
dove tenerti stretta sui fianchi
col sapore, di quella mela in due consumata.
Si, giochiamo
salviamo questa noia d’amore mille anni;
fin quando i padri tornano a casa
e per le scale,
le madri con le sporte d’arance non vedremo.
Salire come viene nel cuore la vecchiezza,
malinconia del dito allo zucchero
e del sonno.

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RITRATTO NUMERO OTTO

Così, dal ceppo
con laborioso inganno
col suo coltello Franco creava le ocarine
nell’intimo del legno sudato.
Come spillo
che per la trama il filo improbabile conduce
sostituiva l’anima morta con la Musa.
La dolce velleità di una bocca più capace
a cavar suono dolce, le melodie più acute.
Le scorze, come pelle di serpe rinnovata
smorzavano la vita tra i gomiti dell’erba;
e a me veniva forte la nostalgia di casa
del pane vecchio nella minestra
certe sere, che non faceva credito
Gino, il salumiere.

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