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Archive for aprile 2016

CHE RIDA IL MIO CUORE

Scrivo per sciogliere i nodi delle scarpe
il ghiaccio delle tre di mattina
e la mia lingua, che come la lumaca alle foglie
goda ancora, di tutta la bellezza nascosta in pochi spicci
nei lividi di terra, nelle gemmate nuove.
E scrivo perché ho il vizio dei padri di guardare
la discendenza mentre matura, l’acqua nuova
come ritira i diti dei piedi in riva al mare
come scoraggia i bulli di fiume
come annega, insieme alla virtù d’esser giovane
la luna, e le sue ventimila stellate d’acne in cielo.
E scrivo perché un giorno si spegnerà il camino
il fuoco sopra il monte al patrono
e il mio motore, lubrificato a incenso e grappini.
E queste mani, a te dovute allegre e spregiudicate insieme.
E scrivo perché il petto si gonfi e cresca il grano
le tue tettine saldino il conto, e mi dia ancora
la bocca come un saio di frate su me nudo.
E scrivo perché ho un lato morente, disgraziato
uno che guarda il culo alle altre e uno che morde
quel proprio labbro a far penitenza. Scrivo e soffio
riempio l’otre che fu di Ulisse e i miei coglioni;
qualcuno busserà a questa porta e voglio stare
con tutte le scartoffie impilate
e cento lire, tirate su al negozio d’infanzia.
In bella mostra
la fronte alta pronta al giudizio, il riso in cuore.

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OGGETTI SMARRITI

Volesse il tempo fare un po’ ammenda!
e scappellarsi, santo quel dio, davanti al fatto
che per tre quarti buoni di vita fai fatica
e tiri su i figlioli con pane e cavolfiori.
Volesse fare meno il pettegolo e mostrare
un poco di pudore e decenza: dico una
giornata in cui ti porto sul lago e non importa
se piove giù da tetto e nel frigo ho un osso buco
ormai più buono a farci una cena. Cosa costa?
che apra, via, una porta
e che ci porti al Cine, e dopo a far tre passi
col sole quando cala. Tutto a zero
come fossimo nati soltanto ieri. Cazzo
devo contare poco ai suoi occhi per passare
e ritornare sempre alla coda della fila.
Bisognerebbe dirgli cha siamo tutti uguali
e anch’io ho una voglia boia di baci e di carezze;
che a darne sono capace di brutto, ma fa strano
avere mica tempo per farlo.
Si, bisogna. Bisogna che mi metta il vestito della festa
suonare al campanello di Dio e far domanda.
Ho qui marca da bollo e coraggio, aspetta a casa.

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GLI EROI

Io dell’arena di Lorca non sapevo
né di quell’isola negra ed altri mondi.
Per me gli eroi tenevano il passo di mio padre
la sera all’Osteria che cantava le romanze.
Qualcuno gli pagava un bicchiere e lui attaccava.
La musica sostava nell’aria e nei polmoni
non c’era orchestra, neanche un violino
c’era il fumo, le fregole dei tanti venuti a cacciar via
il mal di mare delle corriere e delle donne
le segretarie che mai la davano.
E anche io
la mia gazzosa in pieno d’ inverno, un tavolino
lontano dalle grida volgari e dai dispetti
di mettermi le mani sul viso e dire
– gnaro
stai diventando grande e più bello.
Via da tutto
intento solo a cogliere il fremito di voce
le rose rosse dei tanti amori, e poi gli acuti;
quell’attimo che tutte le porte erano niente
e nel paese usciva il curato a benedire
quei peccatori mano alla patta, ricchi solo
di ore straordinarie al lavoro, e vino sfuso.

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TORNO PRESTO

Per il tuo seno piccino e intenerito
io metto su famiglia e una polka
vengo scemo, e parlo un po’ da solo
alla pensilina tre.
Per quelle caramelle viziose faccio il palo
coi segni dei malandra se arriva poi qualcuno
partecipo alle feste degli altri con sussiego
e stiro le camice partendo dai polsini.
Per quel tuo seno fragole e panna vengo grasso
trecentoventi il colesterolo, nove il voto
di come poi ti faccio l’amore.
Sarò matto
ma te che t’abbottoni più lenta sei la fede
la medicina per i timori
e per i denti, la lingua e anche l’ipofisi guasta.
Sarò matto, ma quando ti diventano duri sono in banca
e vinco anche la tombola col premio dei fagioli;
sorrido a quella faccia che ho senza vergogna
né senso del peccato e altre sciocchezze insane.
Per quel tuo seno da colibrì ti faccio il nido
con quello che mi avanza del cuore
e poi ti fischio, come facevo un tempo al muretto.
Inizio prima
a lavorare e poi a sparecchiare, torno presto
ci nascondiamo un po’ sotto il letto
forse piove.

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RITORNO AL FUTURO

Di quando s’era poveri in canna, e tu mangiavi
le briciole come gli usignoli
mi ricordo;
e delle poche volte di sabato, un filmetto
una pizza a portar via, scopate folli e basta.
Nessuna nostalgia, questo è il vero
a parte l’oro, dell’essere spaventi in magrezza
ed ore svegli, del tuo sapore ladra di nespole là sotto
il mio profilo nudo nel vento
un poco atleta, un poco vaffanculo agli eroi.
Di quando i fiumi
sapevano di melma di fabbrica, e di verza
e in cielo si leccava il carbone, non ho amore
non il ricordo chiaro che appiccica una donna
il suo saluto dal finestrino.
Meglio adesso, e meglio anche domani
se questa testa regge
se tu guarisci e ci carezziamo. E quello dopo
se a capodanno avremo mutande rosse e vino
se ci ameremo con la prudenza, oppure niente
naso su naso a dirci contenti
un po’ piagnoni, golosi
e con sbadigli sincronizzati pari.

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PROVE TECNICHE DI RESISTENZA

Andate a vivere dove c’è mezzo fiume
un lago di colore minestra
andate altrove, da queste miserevoli terre
e campanili;
da queste ciminiere tuffate in cielo, molli
sbrinate come pesci da cuocere stasera.
Andate e non vendete a nessuno ciò che ho fatto:
quello che vi ho insegnato è venuto da natura
dallo stupore, a volte paura
da un principio, che taglia pane e tela
a divederlo tra umani.
Andate con la faccia che avevo, un po’ del mio
il cuore massacrato e pulito
avete il nome, la storia delle tredici lune, avete fionde
per aggiustare tiri alle rondini e mancarle.
Ché meraviglia è il solo respiro, e poi vedere
toccare ed annusare cos’è quel rosso vivo
che insieme alla placenta saluta il nuovo mondo.
Si, godete, il sole delle undici e un quarto
e poi la luna
le briciole dei fossili, le anime sfiammate.
Godete delle capre che sfidano i crepacci
dell’aquila che adombra la piana, della lontra.
Godete della tenebra giusta, e del riposo
del filo in seta al becco di uccelli, quando il giorno
vi spettina le orecchie e i pertugi.
Andate altrove, dal posto che vi chiama tristezza
dominate
il suo carisma flaccido e cupo. Abbiate fede
nel dio che siete e cresce le unghie, pelle, peli.
Andate dove abbiamo goduto nel pensarvi
nello scaldare il seme futuro, e disertate
da ogni guerra che non sia bacio
lingua
petto.

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ISTRUZIONI PER L‘USO

Riempiti la vita di coni di gelato
di gesti qualche volta puerili
e poi gentili. Quei gesti tipo:
togliersi il triste, ed il cappello
davanti a un quadro o ad una scultura
e ad un donna
nel vivo dei suoi tanti tormenti, ed ai suoi seni;
o quando ha freddo e mostra l’incanto
quando piange
e non lo fa vedere a nessuno.
Fatti giorno, e tocca i frutti suoi come un bimbo
uno onesto, capace di rubare soltanto un chicco d’orzo
nella dispensa grande di Dio.
Fatti del bene
ascolta un oratorio di Bach, l’orgia pulita
di tutti quei cantori più acerbi;
tocca il mondo
come fai con te stesso le notti che la pensi.
Rigurgita il veleno bevuto nelle strade
diffida dei pettegoli, dei tanti sapientoni.
Riempiti di aria di lago
di profumi, apri la bocca al verbo salmastro
al vino luna, al miele della donna che ami
anche ai suoi scuri
le sue malinconie un po’ fernet, e un po’ chissà.
Solleticala tutta, anche se dice no
là sotto i piedi quando si lava, falla nuda
la voglia che ha di ridere forte, falla viva
e annusala con modi di gatto
lecca
impara
uniscila al creato e poi dentro un telescopio.
Passale l’olio alle mani
infiorale la schiena col tempo dei beati
e bacia mille volte la luce del suo parto.
Insegnale a nuotare in un metro di stanchezza
e che i sassi levigati sul fondo hanno segreti
fatti di minerali, di latte, rame e salvia.
Riempile la vita, che ancora c’hai del tempo
e fai che ogni cinquanta minuti sia un eterno;
una grattata dove ha prurito, ma leggera.
Se vuoi ti indicherà il crocevia, oppure niente
ma fai che nessun altra leggenda la ferisca
nessuna male lingua a volerla sposa a forza.
Regalale un rametto di pesco, o di ciliegio
ma fai che sia caduto per caso
abbi rispetto, e un pettirosso il labbro che porgi
prima ancora, che chiuda in una stanza di sogni
i suoi pensieri.

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MARIA

Misericordia è bagnarti come un fiume
scoperta sopra i nervi e le vene portatrici.
Nelle tue brevità e nelle atlantiche incertezze
nei piccoli salmoni dei piedi
tra le unghie, che formano un cantiere di latte
e di conchiglie.
Misericordia e venti cicale, quando calda
sei Creta in un villaggio di calce, molle al bacio
superba come un volo che migra;
musicale
nei labbri participio passato. Un putto e un cedro
la festa dei limoni nel tuo girovagare
un posto dove hai niente capelli nella bocca
e l’aria può far quello che vuole. Una Madonna
finito il suo liceo di Betlemme, mica giusta
per fare un figlio pronto al destino.
Buccia e siero
la parte della mela che soffre stare in giro
misericordia per denti e mani, acqua veloce
giù per il tabernacolo fulvo
stessa schiuma
che viene quando il porto è lasciato
e vai per dove.

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THE DARK SIDE OF THE MOON

A volte mi ricordi la gatta nel cortile
la rossa, d’occhio fragile e secco
la scontrosa. Sempre a ridosso di un muro
un’alberata. In altre i rondinini di agosto
i più veloci, nell’inseguire il sogno
di un nido senza spine.
Ma se t’affondo il viso nel buio dei capelli
ritorni l’operaia al telaio
che nascosta, poggiava la sua fronte le cinque di mattina
sul ruvido per mica morire;
mani in salvo e voglia di orinare da matti.
Sei ragazza
nel cuore e nel midollo, e tieni gambe buone
la pancia con i segni dei figli che verranno
il meglio culo di Lombardia.
Sei sopra un treno, con la tua sporta arancia e michetta
il libro buono, parole grandi per poca luce.
Sei sul lago
a far fotografie delle sponde, dei bambini
che ridono al cappello delle signore, andato
a farsi benedire col vento.
E così sia.

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Buttala via la luna rancida e secca, viene aprile
con la caparbietà dei fattori, e i carpentieri.
Con la felicità delle nozze e gli spretati
le federe e il ricamo sui bordi, viene aprile
dispiega le bandiere ché sarà maggio alto
un rosso marachella per strada, un biondo cupo
là dove hai storie fatte di pomice, di fiato
e voglia di venire e buttarti via per poco.
Vieni alle mie bocce ferme e dammi il punto
misura del bel tiro che ho fatto
stai chinata, che mi ricordi odore di terra
e il giorno bigio
che sul sentiero tutto era pioggia, e lumachine.
Fai come le colombe le cinque al davanzale
quando di bronzo e segale è l’aria
e pare meglio, anche la sottoveste del quasi notte.
Ammara, con punta e becco e prendimi tutto:
sei ammiraglio, e mozzo per pulirmi la pancia
dove batte, l’ondata della mia gioventù, piena di sale
e gamberi di fiume, e chitarre maltrattate.

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