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Archive for aprile 2012

Simile a schiocco nell’aria tu mi vieni,
col ramo incerto quando fa scuro
e l’acqua inghiotte, fino alla Francia
tutti i possibili scenari: teorie di averti intatto il profilo
di toccarlo.
O semplice, come un usignolo, essere becco
sulle granaglie della tua cena
in mezzo ai seni.
Presentami la luna, se puoi, lascerò il branco
l’affilo delle venti tagliole
il mondo adulto. Presentami la luna e ne farò sangue vivo
Osanna per venire in città; io sempre dico
che non c’è floreale magnifico in natura
che possa mai competere con l’urlo della pelle.
Quando vicina e forte mi viene alle narici
all’uscio della bocca, con l’aspro dei limoni.
Tu, mio amore, amore che non sei niente mio
vedi che hai fatto?
Il furto di una rosa è il più bello dei peccati
la sua vaniglia ha pagine tenui, delicate;
fa il pari con il frutto che mai ti colsi, cara
per non sembrati ladro di sentimenti. Amore
tu che sei niente affatto il mio amore
non dolere, non giudicare il folle che alla finestra vive
le cavità in cui mette il tuo mare
azzurro
verde. Colori del cipresso e del farti da mangiare.
Non giudicare e sii solo amore, solo il puro
che celebra esistenza e mistero
turbamento, il giro della chiave e il notturno delle onde;
la musica dei piccoli infissi, e dei vestiti
del capo abbandonato sul ventre, come foglia
che semplice si lascia alla calma delle cose.

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LA STAFFETTA

Tu, l’hai imparato il fischio
sentito su ai sentieri?
Non era il treno al passo d’inverno,
non un porto,
ché nelle nebbie sole si disfaceva il mare.
Per terre di vigneti e di arrugginite frasche
si consumava un pasto di cacio
e poco pane; con l’occhio attento più dell’orecchio
a quei plotoni, al rombo delle scarpe germaniche.
Alla vita, tenuta in tasche troppo scucite
così lieve
che l’aria di un uccello levato era di sasso.

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LA NOSTALGIA

Viene la nostalgia a sentir piovere,
e anche senza.
Perché ci siamo messi di fronte alla bellezza
ai fili d’erba e al sole
pietrificato negli occhi, come allora
che messo un po’ di fumo sul vetro lo rapimmo
nel mentre amoreggiava la luna a penzoloni.
Ci mise dei minuti senza la canottiera,
sembrava quando avevo mio padre là vicino,
nel letto dell’estate che aveva sponde bianche.
Bella, e dolce.
La nostalgia che fa quattro nodi ad un foulard
la nostalgia dei fianchi sui quali mi tagliavo
a fare il filo come alla mola, ed all’amore
il più pericoloso e sudato, il più normanno:
la sciabola e la spina dorsale, tutta nuda.

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Forse così crebbe l’inizio,
la fine delle cose tangibili, il silenzio
come una mela marcia ad infonderci il peccato.
Mi chiami a giudicare una veglia senza uccelli
un prato semiesausto di pioggia
niente barche; i fiumi ora diretti ai tombini
hanno detriti
immagini di qualche ragazzo un po’ sudato
che torna a casa a sera inoltrata.
Così, o meglio, il cielo scuro il venerdì santo
Cristo in croce
che maledice i palmi di mano e i piedi d’osso.

**

Rubens non era un pittore, era mio amico.
Conoscitore a fondo dei ritmi di lavoro,
dell’Alfasud e i fichi di nonno.
Era mio amico
per tanti anni a farsi la vita più lontano
con la sua donna uguale alla mia
le sue figliole
il mal di pancia e il colesterolo.
Era mio amico
con lui s’era diviso una mezza minerale
il bello e la paura di fare tanto amore.
Con lui s’era diviso una fetta di balcone
sotto la pioggia, fuori al liceo
per dirmi – Anna
è quella che c’ha gli occhi più belli e spiritati;
quella che porta a spasso la luce
e non lo sa.

**

Oggi ne ho scritte tre.
Non ho cavalli e carrozza, né ambulanza
un’auto della pula per fare più veloce.
Ne ho scritte tre e c’ho niente da fare
e nulla posso.
Non posso far guarire i tuoi reni, la tristezza
lo sfruttamento e il brutto dei sogni, che ora faccio
da quando ho rotto il filo di questa tapparella
e l’ultimo bicchiere del tuo servizio buono.
Ne ho scritte tre e mi sento una merda
un fannullone
un operaio mancato in un capannone chiuso.
Mi sento come avessi cent’anni e del petrolio
tra le caviglie e gli inguini.
Di sesso, non parliamo.

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L’IGNORANZA

Quei due che litigavano,
le ciocche via strappate,
e le maledizioni
le mani sulla faccia.
Quei due a mostrarsi i denti
come si fa alla caccia;
come si fa alla preda prescelta in un agguato.

Non sanno del delirio dei vecchi
delle spose, rimpiante nella loro bugia
d’organza e sole.
Non sanno come pigia sul tempo il dio che toglie.
Che fa venire pelle ramarro, l’aria marcia
dentro i respiri usciti a fatica.

No, non sanno
quanta bellezza c’è, in una notte in pieno agosto
tenere tra le braccia una donna mentre ride
mentre si china sopra un lavabo di ninfee
per perdersi con loro
in un lento divenire.

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QUANDO TI AMO

Devo slegarmi dal mondo per amarti
gettare via paturnie e maglietta, insieme
a lato.
Farne maceria d’osso e di luce, averti il senso
il lucido di pietra angolare
qui, sul labbro.

Carezzami il sapore e poi fallo entrare, piano.
Quasi giungesse un vecchio parente, un figlio
un getto, dell’acqua più leggera sui gigli.
Fallo entrare, il vento che fa il giro dell’isola
è affamato
ha erba che si secca ai ginocchi
e sopra il petto
la croce delle mille delizie.

Quando t’amo
io sono l’aria ed ogni elemento
ogni colore; il fisso più le spese
la sera che va via.
La mano per tagliare in due il buio, l’orifizio
per un tesoro fatto di fondi di bottiglia.

Quando ti amo apre lo zoo, chiude il mercato
s’accuccia la magnolia per grassa sazietà.
La neve capovolta copre la Tour Eiffel
il Duomo fa dei lunghi lamenti, pigolii
e tutta la poesia scappa fuori;
ride me, che malamente nudo
tu mi capisci un po’.

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MI MANCHI

Quando mi manchi è molesto anche l’aprile
il taglia erbe che mi profana
il gatto bianco, venuto a mangiucchiarmi le scarpe
perché è cieco.
E crede nella gioia degli umili, dei santi,
di quelli che se dormono soli non fa niente.
E tu mi manchi.
Mi manchi da trent’anni e mezz’ora,
minuto più o di meno non fa la differenza.
Mi manchi come il vento sul primo metro d’acqua
quella che la assomiglia a una bimba spettinata
con la gazzosa in mano e le stringhe da allacciare.
Mi manchi come certi silenzi che fa il treno
quando si ferma in mezzo a dei campi
e non sai cosa, non sai quando riparti
e non te ne importa nulla.

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LA TENEREZZA

A sedici anni avevo le mani appese al sole.
Sono le stesse, guarda
capaci e incontrollate. Avevo labbra per ogni vetro o fiore
per far suonare i fili dell’erba
o il tuo costato.
Se poso il loro uscio sul tuo li puoi sentire
i viaggi che non hanno mai fatto, il ritornare
ch’è il più bello spettacolo, sicuro, dell’andare.
Mi puoi ascoltare ancora la febbre dei bambini
il taciturno volgere triste del mio volto
se non ti senti affatto felice
emancipata; o se non hai del tempo per metterti vestiti
una gonnellina tutta risate
un nuovo amore.

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FAR PARLARE GLI ALBERI

A volte mi fa male nel petto, e sono un uomo
di diecimila anni
portati molto male.
A volte maledico il mio scrivere, la merla
e tutti quegli uccelli tornati in primavera
a far parlare gli alberi, ma così forte gente
che perdo il sonno e ciò che ho da dire.
A volte rido, di me
e questa forzata impostura tra le mani;
e penso sia del tutto improbabile godere
della bellezza calda e profonda d’ogni cosa.
Se ogni cosa è pioggia sui vetri, acqua morta
che sta tre giorni al massimo in cima alle sorprese.
Per dopo calcolarsi un ritorno in mezzo al buio
a tutta questa pazza indecenza ch’è l’averti
vicina senza nulla toccare, a volte. A volte.
A volte ti racconto che sono uscito in strada
non era ancora aperto il lattaio,
neanche il cielo.
E il mondo era un bel treno rovente,
con noi dentro
ad aspettare forse una mano a farci aria
a farci strada verso quel bar di pendolari
dove ti regalai due boeri e un po’ di me
baciandoti con tutta la lingua
e il paletot, sporco di zucchero
e di felicità.

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