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Archive for agosto 2017

LIBERA – ELOGIO DELLA POESIA

La mia amante ha una chitarra in groppa
la suona all’orinale d’ardesia sotto il letto;
quando la notte è fiacca di spinte
e alla finestra, rimane impresso come un patibolo
od un geco.
L’amante mia ha le pietre del giorno tra le dita
i piedi divenuti faine, il dente d’oro
ficcato tra l’ogiva dei baci e il pentimento.
L’amante mia ha uno strascico in seta, il culo sodo
un albero che origina frutti per dorsale.
Ha un’orgia di capelli sul pergolato, anelli
sposati a dei capezzoli bruni, grandi, dolci
spinosi quando è tempo di semina e stan ritti
contro gli uccelli del malaugurio.
La mia amante
mi chiava e resta vergine sempre, mi condanna
e chiude fuori porta come uno che ha peccato.
L’amante mia è sacrilega e porca, puzza d’aglio
di vino messo in frigo, svanito
è capricciosa, piange le sette fiasche e mi stira le camicie.
Si lascia tra le mani il sapore sfegatato
di quando s’è cercata il piacere.
La mia amante, non sa che è la mia amante
ma le dichiaro il falso, e torno alla mia casa ogni volta
testa alta.
L’amante mia è una fata ubriaca, agita in aria
la sua bacchetta fatta di spago e liquerizia;
ci prova a far fiorire un disastro, l’eccellenza
in questa testa preda dei flutti. Ama dormire
un poco prima e dopo l’amore, è in costruzione
come la vanità di chi scrive e non sa nulla
della sua libertà ben nascosta, della pena
con cui è costretta a vivere, eterna, dentro libri
soffitte e biblioteche ammuffite.
La mia amante
è una scultura senza cavalli e senza spada
ci cagano i piccioni l’inverno
e anche gli idioti, gli indifferenti al fatto
che tutti siamo uguali, tremendamente soli
cadenti, affascinati, nel nostro misurarci le ali
come un gioco.

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Cosa ne sa dell’età che è vetro scuro?
di queste ossa fragili e buche
della fame, che cola giù dagli occhi
come una cantilena?
Lei sa di pini e inverni lontani
di foreste, di cattedrali e fiumi melensi.
Sa di buono
come sanno di buono le muse di bellezza
le ostie al tabernacolo aperto
le cantine, che per entrarci devi aver sete di fioriere
di storie sconce e nei sopra il labbro.
E’ lì che bagna
il bordo della vasca con le sue braccia fuori
come Lolita in certi episodi, come il frullo
dei passeri che inondano casa, la mattina
e a me viene da chiedermi
– chissà vederla nuda?

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MASSIMO BOTTURI – PIRATI

Che onore Luigi, che malinconia e che orizzonti infiniti. Un po’ come quelli del tuo Cile. Un abbraccio di amicizia e gratitudine.

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Si può scrivere ancora
venisse la potenza del verso alla mia casa;
nei panni di una donna a cui ho voluto bene
fino allo spasmo delle domeniche, del sole.
Una donna che appoggiava la testa al suo destino
che aveva per capelli una sindone di luce
un bosco di conifere al passo, un cervo ai fiumi.
Si può scrivere ancora col mento alle ginocchia
con le galline a fare la spola
tra la mano, che generosa s’apre al versare di granaglie
e l’angolo assolato meno prudente.
Al sasso, dove vi incisi il mio pentimento
per la fionda, e al male sulle foglie elargito.
Si può fare
se solo di calendula il seno a me porgesse
nell’atto del dormire quando ogni cosa è assente
e il suo pudore mischia dei petali ancor freschi
col lungo esilio della parola.
Lei, la Musa
la timida suzione del labbro quando beve
la gonna appena sopra il ginocchio
i suoi delfini, come colonne d’una navata.
Lei di neve
pericolosamente vicina alle mia mani.

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PIRATI

Maria era sempre incinta.
Gridava come i corvi tra gli alberi
a noi tutti, venuti a far la conta
in quell’angolo di casa
da dove usciva odore di arrosto, e rosmarino.
Le ho vedute
le isole ancorate più a largo di Milano
i caseggiati mezzi scrostati, e poi i ponteggi
mangrovie dove uomini nudi vecchio Sud
tingevano le mura di cielo.
Ho visto i mari
i suoi caleidoscopi nel pozzo
e seppellito, nel cuore di un’amica la mappa del tesoro.
Son stato capitano di spada e di robinia
spesso solo, fino al tramonto d’ogni speranza
d’ogni indugio.
Ho fatto buona pesca di api e di mosconi
in laghi di mastelli di zinco. E avuto figli
sparati per il mondo come rondoni bianchi.
Ho amato donne in porti d’Oriente
e seta, e spezie
catene per remare fino alla consunzione.
Amanti più segrete di me, e ne ho goduto
piangendole svuotando le tasche ai poliziotti
a certi mal mostosi viziati di città
venuti per vedere noi poveri, Pirati.
Bendati alle brutture del mondo
generosi, quando si tratta di fare tardi.
Ho avuto male
dissenterie da dodici mesi, febbri gialle
ragazze azzurre senza mutande
preti e ostie; timore solamente di Dio
e di morte scura. Quella che prese Peppino
un dì di marzo
dopo aver tanto tossito e poi pregato
che mamma lo venisse a pigliare.
Si, vi giuro
vi giuro che ho condotto anche io grandi velieri
nel ventre di un cortile assolato dell’infanzia.

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LO STATO DELLE COSE

Prima di entrare pulisci le ginocchia
ti fai la testa bella
e poi lasci la mia presa.
Nessuna cosa la mondo potrebbe perturbare
questa reminiscenza di gioventù:
noi due
che salutiamo gli alberi sacri, tutti intorno
e ci approntiamo ai seni reciproci
affamati, di tenerezza solo
e del bello della casa.
Lo stato delle cose è che abbiamo età di mezzo
e i giorni fanno quello che vogliono, macachi
più dispettosi d’ogni mia mano
o delle mosche, padrone delle tende
e di vecchi asciugamani.

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ANDALUSA

Dormo pesante e di gusto
da innocente.
Se metto il collo al taglio di luna, lo ritrovo
di nuovo pronto a fare il garzone, il saltimbanco;
poeta nel guardare soltanto ciò che vive
e mostra resistenza all’usura.
Il tuo vestito, per fare solamente un esempio
è una bandiera, racconta degli Achei e delle Muse
è rosso vanto, manipolato da un forte vento
ed abitato, dal corpo tuo d’arancia andalusa.
Canta, invoca
la mano mia curiosa e legale
un grande sisma, che tagli il corpo nudo
da ciò che non lo svela.

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