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Archive for marzo 2022

QUATTRO FOGLIE

Forse quell’ultima cosa tu conosci:

bere in eguale misura alla tua bocca

come alla fonte di roccia di quel monte;

scoperta della vita leggera

il volo d’api, golose alla lavanda

e la mano di mio padre.

Forse che un’ultima cosa

è ritornare, l’origine svelata

con quattro foglie appena.

La prima per la mia nudità,

labbra di seta,

le altre per nutrire del vento.

Forse questo

e il tuo bel viso mentre ti lavi

il tuo pudore

di seni come mele sull’albero del pane.

O il prato d’erba Spagna negli occhi

quando l’apri

e pigoli il mattino spezzando le parole.

Il bianco nei capelli che viene

se li sciogli, e poi li fai giocare

col sale delle stelle.

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SOLDATINI

Con lo schioppetto, da piccoli mocciosi

le femmine a far altro

infiorate nei capelli.

Non potevamo conoscere l’abisso:

in noi c’era la luce dei pochi anni,

e il cuore,

ancora era il motore del Novecento breve.

La sera, coricati, disputavamo a Dio

la tenerezza che viene dentro il sonno

la febbre sulla fronte dal troppo avere corso.

La luna ci origliava le ore

mamma, sveglia,

si pettinava i capelli come un fiume.

Tutti in pace, si traversava quieti la notte.

Il mondo all’erta

cessava le sirene spegnendo radio

e lume.

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IL PANE SPEZZATO

Oggi ho sognato di porgerti un boccone

non l’ho mai fatto davvero

e me ne dolgo.

T’avrei restituito l’infanzia andando ai prati;

quell’insistenza tua nell’infondermi la vita

quand’anche avessi già, io, deciso

il suo declino.

Il mondo verticale non l’ho bevuto mai:

io lo guardavo sdraiato

in semi sonno;

svanendo lentamente come la neve a marzo

quando di già primavera è qui,

e reclama.

Avevo pochi giorni nel corpo,

e mille anni,

la gola pronta alla ghigliottina, il collo nudo.

Ma tu eri l’operaio che poco sa

e lavora, che accoglie dalla terra

la scienza del creare.

E come per istinto nutristi la mia lingua

come del fieno ai vitelli, o l’acqua al cane.

Facesti via la polvere dagli occhi piccolini

con le tue mani rozze, le dita di uccellino

piangendo il giorno pari che mi rialzai nell’aria:

quell’albero venuto al tuo seme era rinato.

Ed ora vorrei tanto ripetere quel gesto

nel vino un tozzo in pane spezzato

il corpo, il sangue.

oggi sarebbero stati 90

auguri pà.

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UN PUGNETTO DI TERRA

Non che un pugnetto di terra,

il viso tuo, gravato e secco fiore

tra pagine di storia.

Non prendo tra le braccia tua carità del corpo

potrebbe frangersi, sparso, in episodi

in segnalibri in velo di risa

ed altri pianti.

Non prendo tra le braccia

il tuo essere tranquillo:

ché io vivo di acque agitate, avresti male

un livido contratto sul cuore.

Fame antica, la nostra

di dolcezze e di tenerezze vere;

ché l’ozio è sempre parso un peccato

e la fatica, misura in vita onesta e operosa.

Forse Dio,

è stato il nostro mentore ultimo,

l’inganno, che i puri sorgeranno

in ben altri prati azzurri.

Ma quando sento gemere la vecchia tua bambina

per me non c’è domani, ma ora

e un frutto morso, divento sulla tavola

dimenticato

duro.

a mia madre

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E’ nato un uomo morto

nell’umido di casa

tra l’eresia di un vecchio dottore

e un motorino, poggiato nel cortile

come uno straccio vecchio.

Tu che mi dici – guarda le viole

n’è stagione; ed io che vado dritto

sul crocevia dei piedi, ben teso sui pedali

a trovare l’equilibrio

velocità con cui si vien grandi.

Qui, io caddi. le mille volte giuste

per farmi ora capace.

Qui dove caddero più miseri soldati

fardello della storia che vuole sia di gloria

la morte invece rozza e fanatica.

Le viole,

nel maculato prato che soffre siccità;

han preso nutrimento dal sangue degli eroi

da grida di pregnanza e di rivoltata terra.

Han visto la bellezza in un portico isolato

tra i campanacci ruggini e spenti

e una fiumana, di pecore spaesate

di ferrovia e calcine. Le viole tu mi dici

perché sei bella e basta

la bocca tieni asciutta dall’odio

e nobil cuore. Nel corpo

il firmamento di quei componimenti

che un giorno chiamerai tuoi bambini

carezzando.

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