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Archive for luglio 2016

FOGLIE DI CEDRO

Da piccolo
restavo con la schiena delle ore, sopra la terra
senza pretese. Ero il suo pane
il seme sprofondato e il delitto.
L’erba alta
aveva quel colore prudente delle gonne
le sue, di fronte al ventilatore
le sue un tempo, in cui pareva fiera delle ginocchia e vene.
Da piccolo la voce dei prati era il mio liuto
e somigliavo a un sasso nell’acqua
levigato, pulito prima d’essere sonno
un frutto acerbo, nel suo stato di grazia
lì immobile e sensuale.
Da piccolo nessuno vedeva l’ombra bianca
di uno tra le spighe e un singhiozzo;
di me, solo, a fare i conti con il buon Dio
grande ingegnere, decoratore fatto e finito di canali
del limitare grave e fugace di una luce
che prima o poi sarebbe finita.
Era la cena
le grida sabbia e vento di mamma, le sue uscite
da quella porta mistica in strada, a farmi attento
un prodigo da non festeggiare.
E come allora
da piccolo ho cinquantasei anni, un neo sul labbro
e ancora rido forte negli occhi
quando nuda, non sai cosa succede al mio albero.
Per questo
non piangerò domani il congedo dalla scena
poggiate ancora a foglie di cedro
avrò le mani, il sesso di mirtillo sopra il suo seno antico
la bocca piena dei sette mari
il fianco curvo, profilo portoghese che guarda all’avventura.

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CERCHI D’ACQUA

Il senso di paura ha il colore delle more
lentiggini sul naso
e del blu dentro le vene.
Germoglia quando ho fretta di viverti
e sei secca
potresti aprirti mille ferite, anche se piano
facessi sopra te le pulsioni, e poi le ondate.
Il senso di paura ha riempito il nostro vaso
di frutti sciagurati e precoci
ho gambe al vento, terribili alle cose d’amore
ma prudenti, vicino alla tua soglia del fiore
alle tue foglie.
Le braccia hanno memoria dell’edera, inurbane
selvatiche gattacce in cascina;
e tu sei vetro, la fila più ordinata dei calici in cucina
la delicata e nuda moria dei cerchi d’acqua
che vivono di breve bellezza
e poi van via.

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Con le zampette dure e sottili, con i denti
col carico alla schiena dei muli
testa bassa, la voglia di spaccare le noci con le mani;
la fretta di mandare giù tutto con un sorso
la boria delle rivoluzioni.
Sul mio pene
venivi con l’astuzia e le bende di una gazza
l’odore sotto braccio di pane con le mele
l’eccitazione delle scogliere
il petto aguzzo.
E il sangue ti scalava le montagne.
Poi lasciavi
cadevi con la coda frusciante
eri una volpe, con l’occhio dei ciclopi tra gli inguini
e la furia, di certi temporali che viene quasi voglia
da farci un’orazione e una foto
lì, ammirati.

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UN VECCHIO E IL MARE

A uno che vedeva più niente gli è bastato
l’odore di mammella dell’acqua sopra i piedi;
il sasso tra le dita come una cosa viva.
A uno che viveva più niente l’han portato
dove gli uccelli fanno fatica, molto a largo
e l’aria spezza l’ultima cena
e dio ha più niente, con cui celare
il viso e le braccia.
L’han chiamato
col sentimento solo che viene su alla fine
il film delle sue cose animate, delle labbra
perenne movimento del suggere neonato.
A uno che voleva nuotare l’han lasciato
come una carpa a guado di fiume
aveva il sangue
tra guancia e paradiso per via di un amo esperto.
Ma poi che fu nell’utero azzurro ebbe coraggio
e respirò altre tre quattro volte
poi un gran riso.

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FA CALDO

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A VOLTE IL CIELO

A volte vorrei essere un albero pennuto
vivere fuori la notte
per toccare, le piccole mammelle alle donne della luna.
A volte il cielo
il cielo che non puoi misurarlo e non trattiene
il cielo che fa l’arco perfetto di colori.
A volte vorrei essere tuo
e domani niente, ognuno a casa sua
ed è stato bello, amen.
A volte la poesia si fa debole, distante
necessita di un pizzico, meglio uno sculaccione
a volte si fa porta d’inganno, e le fessure
si riempiono di un sole slabbrato
un po’ puerile, nulla a identificarlo con quello della Grecia.
A volte è alzare il calice alla trattoria S. Anna
ma bere solamente a partita ormai finita,
con l’ultimo vagito animale di qualcuno
che a casa c’ha nessuno e se piange è naturale.
A volte vorrei essere un luccio, un pesce bello
aguzzo per le mani di chi mi vuole morto
ma morbido con tutti gli amori, a volte l’acqua
che dentro te fa bene il mestiere, farmi bere
dalle tue mani sacre e dipinte, dal tuo addome
sudato e genuflesso all’abisso che ti chiama.

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