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Archive for gennaio 2017

ACQUA DALLA LUNA

Acqua dalla luna
invece dei miei soliti fiori in carta velo.
La porterò alla fine di un viaggio immaginato
sul filo del telegrafo insonne, un piede solo
mi basterà a percorrerlo indenne.
Acqua salmastra
di villeggianti scesi in inverno, un poco amara
e rarefatta fino a puoi berla.
Acqua di luna
vicina alle promesse di un padre manovale
alle sue feste Cristo comanda, alla sua assenza.
Vicina a quelle donne con il foulard marrone
sui motorini in strade statali, andate tutte
a farsi via le mani a un telaio.
Acqua di luna
vicina alle calzette di Paola sul balcone
a venti foglie uccise ai gerani per chiamarmi
farsi guardare su alla ringhiera e poi scalare
i metri d’aria fino al suo corpo.
Acqua di luna.
Rimane sulle dita di chi la sa vedere
di chi ha capito il gusto segreto nel palato
di certe lingue in baci d’assurdo
baci lunghi, precipitosi e poco consueti.
Acqua di luna
per la fotografia da lavare, per il mago
che nel cilindro ha mille conigli e un tuo messaggio
una spinosa voglia di rose per l’amore
d’avermi accanto come l’afrore, verso sera
dei gelsomini in piena carriera.
Acqua di luna.

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DEDICA

Ai giri sulla giostra concessi i dì di festa
alle mie scarpe nuove e alla mano di mio padre
al suo risvolto dandy da contadino in frac.
Alle mie sole ragioni da esternare
per non volere smettere mai, ai pochi anni
e al modo di suonare che avevano.
Ai capelli, tagliati con la tazza sul capo
al mio barbiere
felice dietro i vetri più sporchi del paese.
Al sacrestano disoccupato e agli scalini
lavati il giovedì di mattina. Ad Esterina
che segna le sue ore in agenda per il mese.
Alle maestre in gonna extra lusso il primo giorno
ai loro bei grembiuli dei mesi successivi;
al mio bastone da cavaliere, a quelle siepi
venute qualche volta le navi, altre il coraggio
dei pellerossa schiavi d’America.
Agli amici
metà già traslocati in città doppi servizi
agli altri qui rimasti, un po’ ruggini
un po’ glabri
venuti grassi tra i capannoni. Alle ragazze
coi tacchi sulla ghiaia o davanti alle vetrine
ai loro cappellini alla moda
a quei discorsi, sulla bellezza effimera e ingiusta
sull’amore
per uno visto al Cine o nel viale principale
senza il coraggio di dire niente, cose tipo
– mi andrebbe volentieri un caffè
mi vuol sposare?

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MANUALE DI LEGGEREZZA

Non basta farsi piuma, capello, quadrifoglio.
E’ necessario un IO un po’ sconvolto
un turpiloquio, tra fegato e esperienza di vita
e poi l’odore, rimasto sulle dita del quasi amore
un fregio, la crosta di una vecchia ferita
tutto il pianto, che da bambino hai fatto da solo
la paura, che vivere a fatica costante sia peggiore
del semplice morire di netto.
No, non bastano la gioia e le carezze dei figlioli
la neve e l’usignolo che va cercando il grano.
Non bastano le gambe tornite dell’amica
desiderarle e mordere l’aria, o un po’ di spago
intorno alla valigia degli ultimi. Non basta
memoria della bocca e degli occhi verdi.
In cima, bisogna essere santi senza vedere Dio
né religione alcuna che scrivere, ed amare
tutti i pioppeti visti da giovane
i cortili, le piccole vetrate dove cuciva Elvira
i gatti con il muso di sbornia, e poi le scale
perennemente all’ombra e nettate con le grida
di bimbi e lavandaie in ritiro.
E poi giacigli, fatti di paglia e frasche piegate
terra all’unghie, e il cuore più pulito dei salici
giù al fosso, quando la primavera li lava
e mette fretta, a tutti quegli apostoli dodici d’amore.
Bisogna avere un posto di vento per ognuno
un bacio pronto a fare giustizia, l’apertura
magnifica e maestosa dell’aquila in planata.
Bisogna conciliarsi alla schiena dell’amata
aprirle delle porte per farla andare altrove
se proprio non ne può fare a meno e ti saluta
col frutto silenzioso del suo appassire
e basta.

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I TULIPANI

Se guardi in alto vien meglio la poesia:
c’è il missile milioni e milioni di altre strade
l’arancia della luna tra i rami
il freddo becco;
i monaci alle case di pietra, le campane
le quattro migrazioni che fanno quegli storni
nel caricare il cielo di fumo.
Nonostante, m’è dato l’apogeo del lombrico
il fiore emerso, e quello che verrà poi reciso;
il sasso aguzzo, tra il piede nudo e l’inguine rosso.
E dopo, ancora
m’è dato il suono fragile e fondo del metallo
l’orecchio ben poggiato al dolore delle piante.
M’è data questa testa che ha il sonno delle mele
si sveglia quando passano i treni, e si riaddorme
se mi carezzi un po’ maliziosa.
Qui, sul petto
da dove cavo versi come il marmista un dio
colori tenui ed altri più accesi, tulipani
che vivono con me la vita breve
bella.

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PREGHIERA

Non chiedo che un ritorno all’infinito
la luce che proibita fu a Omero, la genziana
e tutti i frutti dell’alto mare.
Chiedo venia
e tutto l’impossibile giusto, me, rinato
in un eterno andare e fiorire
e te, maldestra
che stendi la farina alle prime armi.
Chiedo
pregando un Dio che m’è sconosciuto
faccio il mago, Romeo senza veleno né arte
chiedo il cielo
che non è affatto assenza di cose.
Chiedo il verso, degli animali all’alba
e nel parto prodigioso;
dalla tua schiena roccia per case e cattedrali
dai tuoi progetti un semplice corso di campagna
beccato a mille luci di ghiaccio.
Lungo un miglio, ed oltre fino a quanto io veda.
Chiedo vita, per te prima che all’essere insieme
per i nostri, e i loro viaggi via dalla fame;
chiedo grazia, e forza perché fletta il mio corpo
a te, risorta
mediterranea fame d’ulivo
donna lesa.

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IDA

Il suono del telefono è parente primo grado
sei l’unica a sentirlo
hai un piede nella pancia, un dito in bocca
e il miele dei poveri.
Lui trilla
comincia col risveglio delle galline e i tordi
col carico di frutta che sosta a bordo strada;
ti dice che a Milano ci sono piazze immense
palazzi con il nome di dolci e di liquori.
Ti dice che ogni treno ha un prima o poi che parte
un divanetto per le signore, un controllore
che chiude un occhio innanzi all’età.
Lo fa fin sera
non smette di suonare perché c’ha due nipoti
e un figlio quasi astemio che ama il cielo azzurro
e le portinerie di una volta, molti gatti
una stufetta e baci rubati. Schiena e bocca.
Non smette neanche andata a dormire, ti ricorda
che hai avuto un vestitino fiorito, giorni tristi
l’odore della morte vicino
ma anche pace.

per gli 82 anni di mia madre

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GENESI

Il male di poesia m’è nato col cratere
con l’eruzione prima che ha fatto l’uomo
il mare. Col monte che si spacca per partorire il cedro
il collo della donna e il suo istante passionale.
M’è nato con caviglia di cerva, col sartiame
di un naufrago che ha cera alle orecchie;
con risacca
e poi rumore forte di onda. Con il ventre
e i suoi vapori in salsa materna
in fretta
in gola
nell’ugola dei tuoi mandamenti, nel cercarmi
per trasformare in oro il mio sesso.
E con le ere
il nome ai continenti e ai malati di pigione.
M’è nato con caduta di sassi e un po’ di cielo
col bronzo delle stelle sepolte, con la voce
dei piccoli operai nelle fabbriche.
Col fumo, dei ventisei battelli lanciati a brutto muso
coi treni supersonici che sbattono le ali
e ignorano le storie di ognuno, le pignatte
lasciate sopra il fuoco in attimo di morte.
M’è nato quando ho visto la donna
e dopo il figlio, la vulva dentro l’albero magico
le foglie, la sabbia del deserto del Sinai
la tortura. M’è nato quando imbianco la notte
quando lecco, o mando giù la bocca tua amara
quando indugio e metto il dito nella tua essenza.
Quando godo
o lascio che il respiro si fermi, quando provo
a vivere quel senza di te di cui ho terrore.
M’è nato quando ho visto mia madre sulla ghiaia
le calze rotte e il pianto celeste, e poi mio padre
i suoi due tiri prima di andare. E me, bambino
il buio della stanza coi mostri, me, ragazzo
il buio della stanza coi mostri.
Me, ora uomo, il buio della stanza coi mostri.
Me, nessuno.

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