Ditemi, voi
se esiste un giusto fiore
che valga crudeltà di strapparlo alla sua terra
per porgerlo là dove c’è stata sepoltura
di uomini per mano di uomini finiti.
Ditelo al padre e alla madre là in cucina
che porgano le sette stoviglie a riposare
il vino dentro il fiasco a perire.
Dite ai cani, che nessun osso avranno stasera
ai campi arati, quattordici le mani perdute
e tanti i piedi.
Ditelo al prete che esiste vita eterna
dentro le bocche di mosche dei fratelli.
Al Dio che tutto vede e perdona
che oggi è festa, e lacrime e minestra
si mangeranno insieme.
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Uno stendardo che miagola nel vento.
Così è venuto l’albero sul quale io salivo
un verso d’animale che china testa e beve;
la schiena opposta al sole, la sfogliatura nuova.
Vedessi come ancora resiste a questo nulla
a questo cementare e ferrare, a questi neon
coi nomi delle fabbriche, di alberghi nascituri.
Vedessi come ora saluta me dal vetro
e come pare, al cenno di mano, sollevare
il ramo più deciso che figlia, a buona intesa.
Così vorrei la stessa radice, sotto traccia
nutrire con l’amore la terra alla mia amata;
dosare acqua e ombra, redimere, soffiare
sulle sue braci morte il risveglio ch’è del fuoco.
Così che sopra me si sentisse ancora donna
infante, ballerina, l’indomita mia sposa.
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Come apparente
ed immaginaria stavi
più chiara nel tuo corpo svagato.
E quale canto, veniva
dal mio osso di gola, nell’amore
nella brutalità dell’impegno
nel decoro, di piccole e magnifiche
tue dita ad arricchire. È giunto
adesso, dunque, quell’attimo di pace
a fare d’importanza
anche un fiore nel bicchiere, il gesto
di premura a coprire spalle e capo.
Bella memoria che infervora
e poi plana, su tutte quelle cose
toccate, avute a cura.
Da un piccolo orifizio
si scioglie un po’ di luna;
vivranno più di noi questi istanti
lo sappiamo.
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Cerca di farla felice, trova il modo
il mio sa un po’di mandorle e fichi
di esultanza; a un nido, al primo volo
a un gatto che traversa il cortile.
Al cielo rosso. Cerca di farti felice
sai, è un uccello, la vita, vola via
con rumore, è un porticato
la terra grassa e l’erba toccata a piedi nudi.
Cerca di farla felice, poche cose
sono preziose quanto il suo riso;
così il tuo, le delicate vette dei denti
il labbro puro, cresciuto a sorsi d’acqua
a parole elementari. Cercatevi la grazia
l’un l’altra, è nelle cose, negli atti
e l’armonia delle mani. È nel silenzio
se capita che tutto è rumore, è nel creato
nel bacio sulla fronte dell’intimo saluto.
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Timida foglia, che tu sia benedetta!
Per le tue sponde d’acquasantiera
e il bruco; per il martirio dei colpi
il tuo passire. Sia benedetta la mano
che ti scosse, che ti mostrò la bianca scogliera
il labbro rosso; venuto zolfanello e poi luce
musicante. Sia benedetta la nascita perenne
la brocca d’acqua quasi invisibile.
E poi l’ombra, che fa il tuo corpo semplice
intatto. Benedetta, la sobrietà se dopo
è diluvio, fioritura, pastura
d’aria fina e carteggio. Un gran stormire
di uccelli d’ossa cave e di vento intriso in sale.
Sia benedetta la forma tua a veliero
la curva d’egocentrica stazza, l’armonia
ch’è donna e irrita il Dio più ispirato.
Benedetta, la piaga e il frutto santo di Eva
la sua scelta, le origini del bere
del vivere e morire. Sia benedetta
questa mia ora dura, il morso dell’ortica
la cura, la carezza. E benedetta sia
la tua grazia, il tuo alveare, la terra
dove andrai a riposare. Benedetta.
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L’ultimo giorno cosciente, l’ultima ora dormiente.
Le balle in fieno pesanti, il tetto appena rifatto
le fragoline di bosco cresciute a un pezzo di orto.
Abbiamo solo parlato di cose in fondo normali
un rituale del tempo: e come stai, cosa mangi.
Abbiamo appena sfiorato la giacca ai nostri pensieri
tu padre mio innamorato, io figlio tuo un po’ distratto.
L’ultimo mondo di sera, l’ultima notte africana
l’ultima pioggia di sabbia, rossa catena sui pini.
Abbiamo un poco vissuto, amato niente abbastanza.
Abbiamo vuote le mani, non date retta ai poeti.
A mio padre Angelo 1932 – 2021
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Per quel tuo male d’Africa
di vento lusitano, per il tuo impasto
di sale e rossa terra. Per la fanciulla
e la madre, per l’attesa, la malattia
e la purga d’amore. Per il dono
di te che ho ricevuto in sottili nervature.
Per la tua linfa d’ossigeno e di zolfo
per le scogliere dei seni prosciugati
quelle imbevute di pioggia; per le bianche
le orche, le balene, gli zufoli dell’acqua.
Per la tua lingua stancata in tante sere
per lo svanire dei sensi, il cuore pazzo
per quel tuo sangue rubino sopra i muri
le case aperte dei morti, i ceri a notte.
Per questa fame d’azzurro e pane nero
il corpo tuo infelice che amo carezzare.
Per quel tuo inverno negli occhi e in ventre
il sole, la predica e il vulcano del sesso.
Per il credo e la visione postuma e certa
a tutto questo, io dedico la primula e il bosso
il canto nudo, la carità
e la mia gratitudine, il poema.
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Quest’umiltà delle vesti
ricorda blande cicorie
la timidezza di terra,
l’offerta incondizionata.
Così nasciamo: puerili
un tuorlo d’uovo, una spinta
lo spaesamento continuo
un’agonia delle ore.
Per questo forse ti cerco
nella purezza del ventre;
in quell’oscuro venire
come un germoglio di Dio.
Vespaio di contentezza
amplesso d’acqua e di seme
la tua carezza e il diluvio
le sponde rotte del cielo.
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