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Archive for agosto 2013

ANTOLOGIA MINIMA

Il tizio che m’ha aggiunto quell’osso per il cane
fa poesia.
Mio figlio che si alza sul tram e cede il posto.
La donna incinta che lo rifiuta, il conducente
che frena così dolce che s’aprono le rose.
L’amica mia rumena davanti al Bar, le sette.
Ciabatte in gomma anche se piove, fa poesia.
Non tende mai la mano, ma denti ben torniti
sorride a chi giornata la fa dentro un ufficio
un magazzino o un supermercato.
Fa poesia, la vecchia il mezzo litro di latte nella sporta
il lumino per la foto, là in camera, di giorno
ch’è sveglio quasi sempre a buon ora suo marito.
È dal ’77 ch’è sveglio, lei non muore.
La donna che ci vende le uova fa poesia
la bici come un carro da traino
il suo foulard; le mani come pezzi di legno in acqua santa.
E fa poesia la madre col figlio nudo addosso
il caldo sta mangiando la sua pazienza, e il bello
d’un seno vagabondo ed eretto.
Fa poesia, quel che non fa rumore e fanfara
un corpo solo, un fiore che da carne diventa nostalgia.

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E con la stessa vocina ora ti sveglio,
la tazza delle mille occasioni un po’ freddata.
Da qualche parte mamma ha già fatto il suo dovere
ha partorito un albero un tempo
ora riposa
obliqua alle mie orbite in ghiaccio
sempre in ombra;
che non si sciupi la permanente, e la sua schiena.
Da qualche parte, forse
mi ascolta
e mi conosce
mi da le mille lire per gli ultimi panini:
che quando arriva l’uomo bisogna pur sfamarlo.
Da qualche parte ha ancora i suoi vizi
e gusci d’uova
quel modo tutto suo di tagliare l’insalata
facendola a coriandoli e strisce
poco aceto, che per la gola è come il vin santo
ma crudele.
Da qualche parte, ora, starà toccando i pomi
drizzando le putrelle dall’ultimo uragano.
O forse avrà le mani al cancello,
appresso a uno, che vanvera di dio e di peccato
apocalisse
che mai non viene tutte le volte
ed è già qui.

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Non è che il volto cavo di un pazzo figurante.
La tosse quasi asmatica che ci sciorina sempre
compiuto il rito delle sue rose
e del sicario.
Il killer delle dodici e trenta è un uomo furbo
ha un canovaccio d’aria segreta, barba incolta.
Lui che del mare sa solo l’invecchiare
di darci poi dei ninnoli simili a cornamuse:
voci da dentro fatte di madri in apprensione
sirene con le tette smagrite, pesci luna
che fanno andare il culo e la bocca come stelle
la notte che ci pianti le tende per guardarle
nel fisso più due o tre provvigioni, se va bene.
Il killer ha steccati di legno per ghiaccioli
i gatti lo calpestano ignari, i figli apposta.
Gli portano la spesa come a un infermo, e niente
lui dice come grazie o qualcosa per gradire.
Ne mangerà due etti abbondanti, un filo d’olio
il contorno essiccherà come i fichi del vicino.
Nessuno li raccoglie, sono quasi tutti via
con l’auto e con le gomme gonfiate
in un albergo, tutto compreso, pare
anche masturbarsi insieme
col condizionatore a manetta, da signori.
Due settimane pura pellagra, canottiera
la pelle da esibire al ritorno, niente foto:
la suocera ha un principio di gotta
il figlio sputa
su tutto ciò che sa di famiglia
chiuso, basta.

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MICROCOSMI

Cose tipo:
anima, universo, religione
trascendenza, vita, morte.
Sono toppo difficili per me, non ne so niente.
Io so soltanto che ho qui una cicatrice
l’ho fatta da bambino, in campagna
un incidente.
So solo che la mostro poi a lei, nel semibuio
e le racconto come è successo.
E allora viene
così vicino che quello che poi sento
è solo tenerezza incredibile.
E la tocco. Percorro la sua schiena come un’opera d’arte.
Mi dico fortunato nella mia povertà
mi dico grande nell’ignoranza
e sto tranquillo
dentro i miei anni a volte rimpianti.
Ecco, amici
è che non so spiegarvi galassie e biologia
filosofie del tanto impazzire
astruse carte.
Per me sta tutto in quello che ho visto ieri sera.
La testa di una lei sulla spalla di qualcuno
fermati ad aspettare la notte
e un filo d’aria.

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ORIENTARSI SENZA STELLE

E poi venne la mano
là in mezzo a strade piene.

L’odore di mio padre era acqua di colonia
tabacco e talco, umido in testa.
Il mio paura. Di troppa gente e nomi di vie
non ricordate.
Paura che la sera mi avrebbe tolto casa
il tavolo di briciole e il letto
i fili fuori, coi miei calzini e il resto a gocciare.

Era la fiera, non so poi a quale santo toccasse.
Urla e banchi, serragli interi mossi a marea
forse da luna, quell’occhio bianco pure di giorno.
Dolci e frutta.
Alcuni con le stoffe, giurando fosse moda
vociavano più forte di altri.

E io lo persi
come si disfa il nodo alle scarpe
o la cintura. Un attimo a toccare due cedri
e fui da solo
capendo niente in tutto l’azzurro di quel cielo
che come rotto stava cadendo
lì, sgusciato
come mostrasse il suo tabernacolo
infinito.

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LA PAVONCELLA

Tra i fiordi della noia
navigavamo, incerti.
Lei col suo velo in fila ventotto
io a servire.
La luce del rosone faceva i figli belli
le donne si sgolavano appresso ai salmi noti
e gli uomini, coi loro cappelli sulle panche
lustravano la vista su quei polmoni accesi;
idioti più dal vino
che dall’avere niente.

Gli scambi sul sagrato sembravano una morra
un pari e quasi dispari se alcuno ci provava
a mettere del miele nell’esistenza grama;
a uscirsi qualche bel complimento
alle sottane, a voler dire

“senta, bambina, vuole un crafen?”

La palla del gelato al limone si squagliava
in mano al piccolino lasciato sui gradini
il Bar chiudeva a troppo rumore
ma alle tre
le cinghie in gomma dura sortivano il piacere
un Juke Box con Leali e la luce mezza andata.
E Carla in bicicletta veniva qualche ora
a farsi una gazzosa tra il bigliardino e i maschi
lei e la sua ruota tutti colori
bella, mora.

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ATTIMI

Mi suscita
la mano sul ventre, due tremori.
Il primo è intimità di noi due,
un ditale d’oro.
Per il secondo debbo poi dirti dell’infanzia:
dei giorni in cui, malato
il suo mondo vacillava.
Tenuta il dì lontana al lavoro, preoccupata
con una camomilla dei poveri vicino
e il miele secco del contadino.
Attimi belli.
Al punto che paura mi fa anche respirare.
Come se un usignolo vi fosse
non la mano;
e non vorrei volasse lontano
come allora.

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