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Archive for Maggio 2016

DIAMANTE

A quanti credono Parigi sia per sempre
Venezia confettura di more
Londra un saggio.
A quanti meraviglia lo scatto dei vent’anni
il tendine furioso tra la caviglia e il mare;
io dico che il diamante è per poco.
Oltre la piana
c’è un debole castello di carta, il ratto muore.
Di sterco e dieci buoni propositi si nutre
la terra desolata degli ultimi.
Miei cari, un’auto a centottanta che corre via è la vita
inneggia alla potenza dei fiumi, gode e succhia
le erbacce come gli arcobaleni.
E’ maliziosa, su per i fianchi come i calzoni
affila i seni
fa diventare rossi i capezzoli alle amanti
armeggia e impreca
la bocca in asfissia per l’amore.
Poi è campagna
la smisurata pace dei campi disossati
la sedia di qualcuno si svuota
macchie
odori
lo strozzinaggio senza poesia fegato e cuore.
Il tocco delicato rimane, e poco altro
il limite preciso di un essere cambiato
un pugno di millennio negli occhi
forse gioia.

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VENTO

Il vento col cavallo di guerra
è un ostensorio
un po’ d’incenso prima del pane, un canto noto.
Quando s’è mosso e caduta giù la rosa.
L’abbiamo preso come un presagio
ma per poco
abituati al fatto che il giorno dura sempre
e un angolo di luce, per quanto piccolino
è come l’Asia e tutto l’Antartico.
Da noi
il vento che somiglia alle rondini è tornato
saranno state non lo ricordo
e tu m’hai preso, la mano e ciò che resta di vita;
e m’hai palpato
come mi conoscessi di nuovo, o forse solo
per dare consistenza ad un sogno mai finito.
Il vento e la chitarra degli alberi è venuto
ha tolto i cartelloni degli uomini bugiardi
facendone maceria alle strade
ha rotto i vetri, colpendoli col soffio e la fronte
ha sanguinato
e stamattina il cielo ha il colore dei bambini.
Ottanta volte il campo hanno corso, meraviglia.

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SEMPRE

Ti giunga il mio Brasile inventato
il mio carioca, la penna che dei dieci colori
aveva il vanto. Ti giunga un tulipano spontaneo
là, di fuori, ha messo pancia e un poco di rosso
è mio fratello. Così come fratelli mi sono gli aeroplani
che sembrano leggeri e soffiati; forse ingenuo
è questo mio sorriderti addosso, ma sia chiaro
che sotto la mia pelle conosco bene l’osso
il sangue quando inizia rubino e sfuma in poco.
Ti giunga foniatria degli aironi
e di mia madre, che canticchiava sola e nascosta
venga tutta, quella canzone fatta di erba e di vent’anni.
Ti venga come il sole sull’aia, quello sbieco
quello che scotta meno l’inverno, quello cieco
che a ben guardare ci penso io, se tu sei stesa
a farti pelle bruna per vanità e pretesa, che gli uomini
ti saggino soltanto onesta e vera, magari con un tocco di fard
le ciglia nere, ritratto di una donna di sabato
la sera.

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ORA, E QUI

Fecondo è questo tempo alle risaie
quando la luce fa l’alto mare
e tu con lei, ti togli le ciabatte ai corridoi
per somigliare a un brivido di dea.
Feconda l’aria verde dei vicoli ora bui
il suono della gente riunita, questo gres
che d’infinto ha il solo pensarlo.
T’amo, si
me l’ha insegnato il sangue alla terra, la bugia
che da lontano i prati rimandano:
l’idea, che tutta acqua felice si muova al solo dio
che un giorno si fa vento ed un altro chi lo sa.
Me l’ha insegnato un padre che andava sempre via
per ritornare albero, frutto, nostalgia.
Me l’ha insegnato mamma
col calendario blu: le ore di servizio
la bistecchina a me.
Me l’hai insegnato tu, donna fragile, Pangea
divisa ed esplorata violenta. Tu e il corteo
di api che ti porti a lentezza del tuo io.
Me l’ha insegnato il breve comando che mi dai
di un piccolo piacere risorto, di un Tocai
comprato per la cena e per fingere che noi
si viva un po’ per sempre
quel sempre, ora, e qui.

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MI PORTO ALDA MERINI SUL TRENO

Un vetro temperato separa me dal mondo
da quel futuro grano dormiente
da oleandri, e tronchi malamente tagliati.
E’ un viaggio breve, otto fermate, quindici pagine.
Mi accollo
questa faccenda d’esser poeta, scintillante
nel suo soprabitino da idiota.
Il nome è forte, richiama l’attenzione del controllore
arriva, come un cagnetto a fare le feste.
Il nome è niente
sepolto in qualche circo minore, i fiori nuovi
che parlano di due innamorati, oppure folli
che poi è quasi la stessa cosa.
Io non parlo, tacere infonde fascino ed un poco di mistero.
Ma qui nessuno sa che ho annegate le parole
e che darei la lingua vocale per un’ora
di corpo nudo a dirmi ti amo, sei il mio uomo
il dio dell’arco e delle comete.
No, miei cari, poeti ce n’è mica poi tanti oggi in giro;
qui si prega, si sfrega un po’ d’inchiostro su carta
si matura, e poi si passa ad altre faccende.
Io, ad esempio, per otto ore sposto le cose, e poi digiuno
mi lavo venti volte le mani e insozzo il cuore.
Scoperchio una vecchiezza precoce a farmi male
e poi distillo il miele che sta sotto le gonne
in mattinate fresche sul cesso
penna in mano
la rigorosa mia disciplina di salvare
qualcosa di prezioso, che possa non morire.

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QUANDO NON MI GUARDI

Quando non mi guardi
è perché notte ha messo un freno
la pietra dei chilometri, un po’ di rassegnazione.
Percorri la corrente a memoria
migri piano, tra il piano della tazza
ed il letto sempiterno; ti pesa anche la fame di nuove
l’insistenza, con cui t’accenno chili di devozione antica
sincera come mai prima d’ora. E non mi guardi
per non ferire l’uscio di sbornie ormai passate.
La faccia t’assomiglia alla luna
non incanta, non gode e si fa mezza nei giorni del sereno.
Ormai conosci il frutto del sole, la sua ora
la mano immaginaria dei venti l’ha posato
dove le braccia hai corte e sfiorite
alle fessure
tra la finestra e l’atto dovuto: il giorno pigro
il maggio delle rose e dei tacchi di qualcuna
che passa seducendo la piazza.
Lei, beata
la giovane dell’epoca tua, che ride ancora.

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CREDO

Avere il cuore libero da impurità è il mio credo
la fede in queste mani di vetro
nel pesarti, un niente che ti renda felice;
almeno pigra
vicina ai libri e ai nostri bicchieri.
Fare finta, di essere un estraneo
per ricordare ancora
com’è che si corteggia il peccato, e poi pulirlo
portarlo nello stato gassoso, farne vento
ed evocarlo in giorni di nero.
La mia fede
contempla un calendario di volte che ti ho amata
mettendo dentro biglie e coriandoli
aquiloni, dolcetti con la panna e sciroppo per la tosse.
La fede nella grazia che avevo e ancora nutro
nelle parole dure per poi chiedere scusa
la fede che comincia alla chiesa dei tuoi piedi
e ti saluta molto lontana, in terre secche
nel limbo delle cose più tristi
alla finestra, con una vestaglietta di carta
e mezza bocca
che accenna un sorrisino impotente.
La mia fede
è scriverti una lettera da un buco nella terra
poggiare il mio fucile di grano e fare pace
col dio che t’ha decisa nel tempo
e toglie luce, anemoni e roseti d’infanzia.
La mia fede
è questo stare a pelo dell’acqua, e respirare
udire l’api a filo di orecchio, un nuovo nato
un cane mentre lappa la ciotola
un uccello, percorrere la strada invisibile nel cielo.

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LE BALENE

Fai finta che sia acqua di California casa.
Il buio indica i metri dal fondo
a notte tace, se i debiti li ha estinti
e le barche sono fuori.
Fai finta che l’altrieri ci sia cresciuta, grande
una maestosa coda cetacea
e adesso tocca, lubrificarla e farla ballare;
fai che insieme
qualcuno veda questo destino, dentro, fuori
un movimento come di rondine, o farfalla
soltanto tonnellate diverse.
Fai che insieme
si emerga, e poi si vada da costa a costa, lente
attente a non urtare Pinocchio, Morgan, Silver
fai conto che puoi essere bianca, io più scuro.
Concesso è amarsi dove il corallo è acceso a giorno
e ritornare su bocca aperta. Fai che insieme
si emetta dei segnali tra l’equatore e il polo
che dalla luna venga un saluto, o la tempesta
se proprio vuoi che spezzi le sedie ed il mobilio
la rabbia che ti monta a marea
fai che sia vero.

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INVENTARIO

C’è questo terremoto nascosto, questa iena
la vecchia trattativa ad oltranza tra me e un prete.
C’è il cappellaio matto e il soccorso
la vagina, i primi baffi, il resto lasciato;
c’è il coraggio, e un po’ di lepre dentro le gambe.
C’è l’eunuco, il canto proletario di uno che sa niente
di scienza ed altre cose terrene. C’è un ragazzo
le prime sigarette alla Bogart, qualche sega
e chili di giornali alle porte dei noiosi
di chi stava facendo l’amore e non gli importa
se tutto il mondo è ancora in catene.
C’è il piumaggio
di uno che imparando a volare ha rotto il muso
c’è nonna e il suo respiro da mantice malato
la notte di agonia che colava dalla stanza;
la vasca dei pescetti giù in piazza
lei che torna, voltandosi un minuto da mamma
marameo!
mostrando la sottana con sotto niente. E il vino
lasciato sulla tavola da un padre un po’ distratto;
da un padre che baciava di sfriso, lingua amara
diceva mamma, se non sta bene,
C’è l’estate, e l’uomo sulla luna che ha voglia di nuotare
un gregge proprio in mezzo alla strada quando hai fretta
le tue caviglie gonfie da grande, odore forte
di figli abituati a far tardi. C’è un bivacco
la tenda militare di due per cui lo schifo
è tutto in quel grilletto e nel basco. C’è un amico
partito troppo presto su un tram senza le ruote
ci sono chili e chili di ghiaia là sul viale
e nomi che ho imparato a memoria.
Le sanzioni, che mi dichiari se faccio male
o se ti amo e vengo troppo presto e non ti carezzo bene.
In me c’è un mondo un poco volgare, un poco osceno
un mazzolino tutto bagnato di mughetti
la voglia mai trovata di dire
fine, basta, un po’ di serietà
siamo adulti, porca vacca.

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CELESTE

Celeste era la vena da santa di mia zia
celesti le sue mani di legno, il fosso, là
dove sbatteva uomini e lino, figli e buoi
celesti per le mosche del grano.
Un po’ sul blu, le sei di pomeriggio in aprile.
Un po’ chissà
le tre della mattina che chiusa stava su
a bersi un sonno mandorle e baffi.
Di poesia, ce n’era mica tanta, Celeste però si
veniva con la bici e metteva l’allegria
insieme a mille lire sul tavolo. Mia zia
vendeva uova calde e bestemmie, liturgie
di cose fatte a mano e sudate. Si, allegria
Celeste la spandeva in cortile e dentro me
col riso sulla bocca di quelle di città
i denti come barche a ponente, laghi blu
i suoi occhi sul manubrio che governava un po’.
Celeste era il berretto di zio, la Citroen
le marce da moschetto, e la nafta dentro il box.
Celesti le sottane alle suore, in terital
un ordine moderno per via di siccità.
Celesti anche i grembiuli al lavoro di Ferial
veniva da Alessandria d’Egitto, dall’idea
che qui potesse crescere meglio i figli suoi.
Celeste è il fiorellino di prato di noi due
il vento che si specchia nei treni, l’ora tua
che chiusa dentro il bagno fai tardi, e vieni giù
soltanto quando tutta la donna è sveglia in te.

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