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Archive for settembre 2012

SALUTI E BACI

Vorrei la mia poesia avesse linee di trincea
un fazzoletto bianco ai due lati della valle;
e una matita sopra l’orecchio, come Augusto
il macellaio della mia infanzia.
Insomma, un grido
per dare il via a cent’anni di pace
un testamento
che lasci la mia voglia di te a qualcuno buono.
Ai figli un mandarino d’inverno, ch’era festa
e ci bastava poco per ridere e parlare.

Vorrei la mia poesia somigliasse a quella panca
un anno di lavoro per metterla davanti
alla fontana dieci spettacoli, e poi sopra
innamorati e vecchi a riposo
un ambulante
con le sue rose ancora da schiudere.
Un ritrovo, un Bar con l’aranciata
e poi,
saluti e baci.

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GENESI

Il sibilo del colpo lontano schioda i morti
li mette su di un fianco,
a tentare altro riposo.
Non roviniamo il gesto di Dio
nelle alberate
nell’umido che sale a fatica
nell’odore, che porta dentro infanzia e millenni.
Guarda,
è nuda
questa campagna gravida a funghi
e sole basso.
È nuda come il latte di mucca, il vino in tazza
il pane che raffermo s’inebria a nuova vita.
È nuda come ho tutto da dirti,
e già mi manchi,
mi manchi come certe orazioni uscite a forza
e le ventilazioni d’inverno dentro casa.
Mi manchi come manca alla donna il primo morso
la conoscenza e l’uomo vicino
mano a mano
la storia primigenia che hai modo di ascoltare
se poni bene orecchio alla sobrietà dell’erba
al verme che scarnifica i sassi
alle radici
che attingono nei laghi profondi
forza e fede.

Qui sono nato, in quest’isola di niente
col mare intorno a pizzo di nuvole
e basalto. La proliferazione dell’alga e lichene,
l’Universo
può essere di un piccolo nemmeno immaginato.
E dentro questa isola ci sono uova antiche
il tuorlo che da origine al fuoco
il magma vitreo, gelatinosa teca che include
gambe e braccia.
E ancora più, nel Micro del Cosmo
i semi buoni
i più fecondi, giudici attenti
i più supremi.
Così come supremo è l’amore, il becco giallo
di mille e più rapaci ai confini di che vedi.
Supremo come l’elmo dei frutti
il loro ardire, verginità concesse soltanto a buone mani.
Supremo come il canto che penetra la cera
l’orecchio profanato di Ulisse, che qui vaga
con un bastone e pelo di capra.
Qui, ammezzato
soltanto l’ombra d’arco che tese
e la sua donna;
lunghi capelli ora in procinto di adornare
le scale mozze di un parrocchia, a perdifiato.
Sentiero per i nidi d’ogni passione viva
d’ogni passione carne e follia.
Qui sta il mio grido,
il mio principio e forse la fine
qui, la pietra
incisa di chi ho amato per sempre
e così sia.

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AL DUNQUE TAKE 2

Una poesia di soli ricordi è un po’ una lagna.
Una poesia mio padre non vede, mamma piange
è una poesia che morbida il cuore
non lo mangia,
lo mette in una teca con luce e Formitrol.

Una poesia con dentro del mare e una conchiglia
va bene verso la mezzanotte, all’Elba
o altrove;
ché qui brucia anche l’edera e zittisce la fontana.
Qui gli angeli non volano
ma stanno sui balconi
con i calzini a fare la goccia, i seni in fiamme
malati delle mani più rozze dei paesani.

Una poesia ne porto due etti,
falla bene,
col sugo che ti lecchi le dita
è un’altra cosa.
È come dirti – forse tra un’ora non ci sono
l’ombra si staccherà dal mio corpo delizioso
per ritornare dov’è venuta –
e allora dammi
la mela che nascondi alla bocca
dammi tutto
perché ho necessità di parole, qui, tra i denti
da mettere stasera tra materasso e rete;
tra canottiera e cinta tre buchi
dammi tutto.

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OCCHI DI PRAGA

Questi occhi malandrini,
questi occhi svolazzanti.
Questi occhi spuma e argento
puntati dritti sul corpo alle signore
sui falchi e sulle guglie
sull’acqua verde culo bottiglia.
Occhi rapaci
lontani come quelli che portano messaggi
occhi che leggono suppliche e preghiere
sul cappellino a terra di un uomo disperato.
Occhi che portano in mano le bandiere
il fuoco di Jan Palach
la libertà e i noccioli.
Questi occhi spettinati e orgogliosi
gonfi, spenti
accesi se t’affacci e mi mostri i nervi tesi
i tendini e le vene di gambe capricciose.
Questi occhi la salute che viene, e poi che va.
Questi occhi della bionda sul tram
occhi assonnati
deliberatamente orchestrali
musicali;
ogive per tenere la mira bell’e pronta
per consumare un tè con Franza Kafka
per provare, a scrivere duecento bestialità alla volta.
Questi occhi primavera
che l’aria nuova arriva
con l’oro dei palazzi, le pietre abbottonate
la stella e le sei punte di David, occhi belli
pieni di fiume un po’ stropicciato
disegnato
fotografato in pallide estati
occhi di Praga.

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E’ ANCORA BUIO

Ci fossero,
consumerei lanterne a olio.
Proteggerei quest’occhi come le biglie in vetro
sotto il divano
in tasca
o ben strette nella mano.
Non voglio che la luce della Centrale uccida
la sagoma, che meglio l’immagino
e più viene
qui sul mio petto quando ti chiamo
e fingo nulla
sia stato tutto il tempo a chiamarci estranei.

Ora,
particolari poco finiti
meglio nudi;
delineati come Cartesio o il moto d’astri
sollecitati a fare delle stagioni il rito:
colori
caldo e freddo
turgidità dei seni
o rilassatezza estrema.

Particolari un poco sofferti,
tesa hai maschi
su per i fianchi ancora a cercarti.
Vinta,
il sesso,
fotografato in polline asperso.
È ancora buio.

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TUTTO QUEL TEMPO A PARLARE

Tutto quel tempo a parlare
trattenuto, dall’intimo
e un po’ pudico, certo
desiderio;
dell’attimo in cui tu avresti scorto la mia bocca
rivelazione impressa su te
in via di saluti, di confidenze e inginocchiatoi.
Il gesto, poi
Il gesto della mano per contenermi intatto
a dirmi

– buono, sei d’altri tempi, quasi puro
nel modo in cui ti stanchi in amore.
Quasi fermo, temessi una vergata di spighe
alla mia schiena.
O forse solo a contemplazione del diaframma,
di vertebre che elastiche si muovono al respiro.
Il capo che precipita indietro, tutto quanto
tu non sapresti dire altrimenti,
che così .

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I REDUCI

Chi ha combattuto senza peccare
ha occhi fecondi.
Balconi di ragazze, che uscite dal vapore
interrogano il seno cresciuto per sapere
quale virtù le è loro concessa
se le sere, già troppo brevi sono di maggio
ma ulteriori
spiegate verso lidi distanti le poiane.

C’è in loro il corpo fragile nascosto dentro il fiore
il calice che zuppo dell’ultimo boccone
si fa proposta d’essere il meglio
l’incompreso
fatto privato, sorda delizia.

Attenti al tutto
ma più a pioggia traversa.
Ricordo del fragore
che un cielo disossato faceva in notti accese.
E rarità non è il sonno breve, il digiunare
lo sguardo sospettoso nel vuoto di una via.
La tenerezza inflitta in quell’angolo del letto
dove la sposa pigia il suo vino
occhi fecondi.

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