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Archive for luglio 2012

RANDAGI

Ore,
a cementare sporche ginocchia sopra il mento
in un capanno fatto per musicare pioggia
per osservare uccelli
e carcasse d’altri mondi; il lustro degli specchi lontani
dove spiagge
fatte di sassi e altri spericolati insonni
mandavano noi a dire di quanto ora piacesse
al vivere comune la carnagione bruna;
la pelle innaturale di certe sere afose
che sbriciolare amore faceva il controcanto
ai cumuli di fieno in spaccata.
Era la sete,
tremenda delle querce a levarci da quel rito.
Randagi senza denti da scappellare, dritti
soltanto come sanno ben esserlo le schiene
felicitate e senza rancore
noi, randagi.

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PARAGONI

Come ferite in un saggio d’alchimia
i segni bianchi alle spalle, il resto è pelle
violacea per il sole dei gamberi
e degli altri: dei camionisti e dei muratori.

Gina cara
quanto più bella sembri in estate, e quanto anch’io
se penso questo naso sia il becco di un airone
e le tue scapole le ali di un bel cigno.

Noi due, come le statue di dei nelle fontane
i piedi al fresco
e il cuore, più immobile che mai.

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OLTREMARE

Che magari sembra che piove,
come ai pioppi,
quando c’è il vento che corre, e grida un sacco.
Togliti ancora la sottoveste, al buio
c’è un caldo che fa strani i pensieri
e gambe molli. Un caldo che ti scioglie i ghiaccioli
tra le dita, e agita le mosche alle schiene delle mucche.
Un caldo che ci sembra del piscio la fontana
e i piedi vanno a spasso da soli, mezzi matti.

Ma tu, rifallo ancora, ch’è tutta una cagnara
una manna per i coppi
e per le mie orecchie buone.
Accendimi come un notiziario
che ti sciupo, ti faccio venir noia del libro
e anche del mare;
con tutti quei negozi con cose da mangiare
e piccoli canotti per star vicino a riva.
Togliti ancora la sottoveste, amore.
C’è tempo perché venga la voglia di attraccare.

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UN PO’ DI PACE

A quattrocento chilometri
il mio naso
che punta dritto verso la darsena, le stelle.
Il ghiaccio mette casa in un frigo troppo vuoto.

Telefono a mio padre, la schiena fa i capricci
per troppe volte ha avuto me addosso
giù al paese; sopra le teste d’altri
per farmi appassionare
a quelli che giravano in bici tutta Italia.

Dico a mia madre ho pelle di oca, fronte arsa
vado perdendo gli anni ed un poco di capelli
la voglia, certe volte, di fare anche all’amore.

Sarà che fanno troppo baccano per la strada
e io sto male
a mettermi negli occhi e le orecchie tutto il tempo
che quei ragazzi c’hanno davanti.

Ascolto un disco, sorseggio della birra e gassosa
rido un poco
di questa situazione da gatto in un cortile
che cerca l’ombra sotto le auto
un po’ di pace.

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CIAO

ebbene si, il destino di noi lavoratori è che le vacanze siano brevi, e crudeli, per come ti ricordino
la vita che fai tutto il resto dell’anno.
in particolare ho apprezzato le ore dedicate alla lettura, quella di una volta, non su un monitor, ma sulla nuda e cruda carta.
ho finito tutti i racconti di Grace Paley, il numero 52 di Nuovi Argomenti, ho riletto le poesie di Carver,
un bellisimo volume che le raccoglie tutte “Orientarsi con le stelle”, il numero estivo de “L’indice dei libri del mese”
più qualche parola crociata lasciata a metà e piena di cancellazioni.
ho anche scritto, naturalmente, appena riverso dal blocco ricomincio a pubblicare.
se proprio vogliamo trovare un neo a questo periodo di relativa serenità, devo citare la notizia, pessima per me,
della morte di Jon Lord, musicista tra i fondatori dei Deep Purple.
da ragazzo ho fatto un po’ di casino alla chitarra imitando le sue composizioni.

un abbracio a tutti, e grazie per i commenti, che ho gradito molto.

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COLLEZIONE D’ESTATE

ATTERREREMO IN FILA QUARANTA

Sorridi con la faccia, mentre ti sogni il mare.
Una zanzara archivia il suo pasto come “intenso”.
Un cucchiaino è dolce amorevole, due troppi,
sa di bugia, e ti voglio scopare
quindi tratto
e provo a indovinare cos’è che vuoi davvero
che ti fa meno donna malata, belle gambe;
capelli sul cuscino strappati da un moroso
venuto in sogno gli anni che ancora andavi a scuola.
Il miele delle piante ha sporcato le piastrelle
la Luna ha dato gli ultimi spiccioli al droghiere
l’acqua sotterra mangia le sponde a un vecchio cine.
Domenica ci andremo, con una pila in mano.
Atterreremo in fila quaranta, forse dentro
c’è ancora un bigliettino
con scritto che mi piaci.

LA SERPE

Dalla mia stanza vedevo il frutto sole
cadere, quasi unisono, alla monarchia del melo.
Poco distante la strada,
l’uscio,
il Fausto
in preda a convulsioni sulla Lambretta in panne.

La serpe
là sostava, come un anello d’oro
sopra un lenzuolo di tentazioni;
un quasi estate.
Campane come arpioni
ferivano gli uccelli.

LE CICALE

Tu e le foglie venti gerani,
il vento opaco,
che ti amoreggia in mezzo ai ginocchi.
Tu e il tuo gatto, rosso di pelo e coda spezzata.
Sembri allegra:
ché quando apri la bocca si vedono le Fiere
i trampolieri arance nel cielo;
sembri un’ostia
sottile, da non mordere, sennò si fa peccato.
Sembri la veneziana tirata sul balcone
quando la luce mangia le righe
e hai corpo acceso, minuscolo
da un quasi lontano, canterino.
Cicala di ringhiera che dice tre e due quarti.
Che dice fammi bello il sudore,
ho voglia ancora.

OISEAU

L’indifferenza
la lascio ai metronotte e alle beole, là fuori
a quelle geometrie che mai muovono
di pietra.
Stanotte ho visto il nibbio dei poveri
la luna
che azzarda con un becco a spezzare semi gialli.
Un rarefatto uccello di polvere sottile
un giglio sul canale di scolo
una frattura, nel nero di una fredda stazione;
sopra il tetto
di quella pensilina che cova anime in pena.

SE SMETTO DI PARLARE PULITO

Se smetto di parlare pulito escono cose
un mondo fiacco, faccia di pecora
un gonfiore
sopra il mio labbro, qui, e mi sta male.
Sembra una vulva a forma di fiore.

Escono cose
da gambe larghe e fammi guardare,
piazza Lotto. Domenica c’è in giro nessuno
e allora alza, il bianco delle cosce purifica ‘sti muri
queste aiolette di gigli neri e duri.
Parcheggi come resti di un olmo bombardato

Se smetto di parlare pulito metto mano,
caverne, angolo bui
sudore sotto ascella. Ti metto mano e dico che odori
e non è male
ti dico sai di acqua fermata a una cisterna
di api che per troppo coraggio hanno succhiato
l’immagine di sé su una macchia d’olio e sangue.

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POESIA QUASI D’AMORE

Che quasi non mi vedi,
che quasi non mi senti.
Che quasi ti ho baciata e il sapore è un calendario
un chiavistello per le abitudini
un rosario; che non ricordo più le preghiere
neanche i sassi
sotto le scarpe mezze slacciate
nelle mani, di chi meglio di dio ha trovato altro da fare.
Lanciare foglie quasi a colpirne cento
uccelli, un quasi rondine a sera, un quasi amore
per quelle canottiere pulite a sgocciolare
per quelle motorette a freddare
per le madri, svogliatamente nude
che smorzano la luce.
Che quasi vedi bene lo stesso, il prato è bianco.
La polvere sottile nell’occhio della notte,
la lacrima che scappa a pulirlo
e un quasi è bello
sapere le tue braccia che prima o poi verranno.

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